Cartella N. 5 - Natale 1999: Vittorio Sgarbi / Roberto Stelluti: "La fine dell'estate"

Saggi e assaggi di Leonardo Sciascia nelle Arti Figurative

Ha detto recentemente Günter Grass, ricordando Diderot, che il nostro tempo avrebbe bisogno di “Illuminismo”, un Illuminismo come categoria dello spirito e non come categoria storica. Ho pensato alla situazione italiana in balìa di emozioni e di esaltazioni, arrivando alla conclusione che gli italiani avrebbero ancora bisogno di uomini come Leonardo Sciascia. Perché nessun altro intellettuale italiano degli ultimi cinquant’anni potrebbe dirsi più illuminista, più “diderotiano” di Sciascia.

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Titolo: La fine dell'estate

Autore: Roberto Stelluti

Testo di: Vittorio Sgarbi

 

 

Misure Lastra: cm 26x20


Era proprio Sciascia ad affermare, quando gli si chiedeva se si ritenesse progressista, che era progressista rispetto a ciò che andava male e conservatore di ciò che andava bene. Una felice definizione di illuminista che si distingue da certa facile e vuota mitologia del progressismo. Sciascia ha sempre dimostrato la propria distanza anche dagli slogan e dai luoghi comuni conformistici, dai clan di potere. Un formidabile senso di responsabilità del ruolo di intellettuale che è costato a Sciascia anche accuse infamanti – valga per tutte quella incredibile di “filo-mafioso” - da parte di tanti furbi che parlavano in nome della verità rivelata; un senso di responsabilità civile che mai come oggi sembra estraneo ai nostri intellettuali rimasti patetiche “pagliette”, come nei tempi descritti da Sciascia nel brillante saggio-racconto Invenzione di una prefettura.
La citazione di Invenzione di una prefettura è pertinente. Si può dire che dall’occasione della presentazione di quel libro sulle ritrovate pitture di Duilio Cambellotti derivano alcune mie informazioni sulle conoscenze artistiche e sul metodo critico di Sciascia. Non ho dubbi che Sciascia si interessasse all’arte, ma era tale la sua chiarezza, la sua razionalissima coscienza di sé, il suo totale riconoscimento nella “missione” letteraria, da indurlo a saggia discrezione nell’affrontare un tema del quale non si doveva sentire evidentemente specialista.
Ho conosciuto Sciascia assieme a mia sorella, editor della Bompiani, e direttamente da lui ho saputo che aveva letto alcuni miei saggi di storia dell’arte, a testimonianza di un interesse per la materia. Ricordo la simpatia che mi riservò, subito ricambiata e ricordo anche che un giorno mi affidò alcune annate di una rivista dalla raffinata veste grafica, “Fiammetta”, che aveva comprato in una libreria antiquaria; tanto bella da meritare subito una ripresa sulla rivista “FMR”.
D’altronde, quando ne aveva l’occasione Sciascia non mancava di dare testimonianze sugli artisti contemporanei. So del suo apprezzamento per l’arte di Roberto Stelluti, sottile incisore e perlustratore di paesaggi segreti. Sciascia capì il valore di questo incisore isolato, solitario a Fabriano, ma che è con noi, con le nostre ansie e le nostre malinconie come era con lui. Ricordo anche illuminanti riflessioni sulla fotografia, notoriamente cara anche ad altri scrittori siciliani (Bufalino, soprattutto), presentando Ferdinando Scianna.
Nel racconto Invenzione di una prefettura, sull’istituzione della Provincia di Ragusa durante il ventennio fascista, l’arte svolge un ruolo non dominante, ma comunque importante. Protagonista è il variegato panorama umano che si definisce attorno alla nascita della Provincia di Ragusa, promossa dal regime per i meriti acquisiti dalla città iblea nell’affermazione del fascismo in Sicilia. Un panorama affrontato con il piglio analitico dello storico, ricco di puntigliosi scrupoli documentari, ma anche con la sagacia ironica del narratore che attraverso l’applicazione conoscitiva della ragione arriva a vedere quasi un fondo di fatalismo (“il cambiar tutto per non cambiar nulla, linea costante della storia italiana vista da Manzoni, certificata da De Roberto, celebrata da Lampedusa…”), di “eterno ritorno” nelle cose solo incidentalmente siciliane. E’ facile accorgersi come i tipi e gli intrecci della commedia ragusana siano tutt’altro che esclusivi della provincia sicula durante l’epoca fascista, rispondendo a caratteri che si possono allargare a tutta l’Italia e a tempi ben più recenti di quelli: ci sono gli idealisti generosi e ingenui (Totò Giurato e Totò Battaglia), gli “utili idioti” sempre pronti a battere la strada per i vantaggi altrui; c’è il potente opportunista (Pippo Pennavaria), scalatore sociale che esibisce capacità acrobatiche nello stare comunque a galla; c’è l’alta e rozza borghesia dei “proprietari terrieri, degli industriali del caciocavallo, dei soci del circolo dei galantuomini … che non avevano più nulla da conservare; c’è la solita pletora di portaborse pronti a salire sul carro dei vincitori, i più attenti a rinnegare ogni responsabilità passata; ci sono infine gli intellettuali dannunziani da salotto, le già nominate “pagliette”, a concludere un quadretto folcloristico i cui accenti rimandano dichiaratamente a Brancati. Di questa commedia locale il Palazzo della Prefettura (1929-1933), su progetto dell’architetto Ugo Tarchi, avrebbe dovuto sancire la rappresentazione più ufficiale e imperitura. Le sale di rappresentanza, destinate ai “ricevimenti per le feste dello Statuto e per il genetliaco del re, per il Capodanno, per i balli in onore delle Forze Armate”, vengono infatti decorate da un maestro del primo Modernismo italiano, il celebre Duilio Cambellotti. Per avere Cambellotti, a tutti i costi, Pennavaria prepara un concorso pubblico “truccato”. I dipinti del Cambellotti vennero realizzati a tempera e non a “buon fresco”, riuscendo il pittore a convincere lo sprovveduto Pennavaria che con tale tecnica sarebbero durate più a lungo; è evidente il bluff dell’artista, poco propenso a cimentarsi con le fatiche di un affresco eseguito secondo tradizione (sulla calce fresca, dunque con un lavoro continuativo molto intenso), che approfitta dell’atavica e ancora attualissima ignoranza in materia artistica dei nostri amministratori per propinare un surrogato di una tecnica certamente più appropriata per le decorazioni murarie.
Nel considerare le pitture ragusane del Cambellotti, Sciascia si astiene da giudizi tecnici. Esprime a riguardo riflessioni da “uomo d’intelligenza” che esulano dall’analisi stilistica o espressiva, esulano dall’ambito ristretto e specialistico dello specifico autore, ma che allargano il discorso a riflessioni generali che insistono sull’essere le pitture lo specchio di una determinata condizione storica; una condizione che è sempre più complessa e articolata di quanto certi facili massimalismi vorrebbero, di quanto certa visione del fascismo indurrebbe a credere: “Cambellotti non era più fascista di quanto ogni altro artista, in quel periodo, lo fosse; e forse anzi lo era di meno, quel che al fascismo lo legava consistendo principalmente nei temi della romanità e delle bonifiche maremmane: temi non inventati dal fascismo, carducciani piuttosto, e intinto di socialismo il secondo. Quel che ancora oggi ci fa apparire ottima la scelta è il suo non abborracciare la perizia e finitezza del suo lavoro, il suo prenderlo sul serio anche là dove i desideri della committenza non riscuotevano sentimento e ispirazione. Volevano, nella sala di ricevimento, pitture che celebrassero fatti e fasti nazionali e locali del fascismo, dall’interventismo all’impero: cercò di ottenere che quella celebrazione la si figurasse con fatti, allusioni e simboli della storia romana; non riuscì a convincere, ma quel che gli altri volevano e lui non voleva lo fece nel modo migliore, con grande eleganza, con eccellente mestiere… ci basta far qualche passo e varcare le soglie della Sala del Biliardo per risentire quei vent’anni con tutta l’indignazione che la memoria storica e la memoria personale in noi comportano. Sono pitture di due artisti siciliani non ignobili in quanto altro hanno fatto -Pippo Rizzo e Gino Morici - ma si sente che hanno svolto il tema loro assegnato dell’esaltazione e glorificazione del fascismo, del suo vitalismo, delle sue conquiste, per rispondere abbondantemente alle aspettative e al gusto che ritenevano fosse della committenza…”.
Quando ho visto le pitture di Cambellotti a Ragusa, chiamato da Sciascia, mi sono accorto che il “non specialista” Sciascia aveva capito perfettamente. Si era accorto, cioè, di cose che la sua formazione non specialistica poteva non essere in grado di leggere direttamente nella forma delle pitture, ma alle quali era arrivato ugualmente: il raffinato Cambellotti apparteneva culturalmente a una stagione diversa da quella del fascismo, quella del Liberty che in Italia potrebbe essere definita del “modernismo dannunziano”, trovando notevoli difficoltà ad adeguarsi a ideali estetici che stavano andando in direzione dei canoni neo-latini e monumentali sostenuti da Sironi o dai suoi allievi. Sciascia prudente e acuto lettore dell’arte, dunque, ma che subito riprende i panni del grande narratore quando accompagna l’interpretazione delle pitture a un nuovo aneddoto brancatiano, ragione del loro lungo abbandono durante il Dopoguerra: “Come avevano fatto di tutto perché Cambellotti li ritraesse, primogeniti nel primogenito fascismo ibleo e siciliano, nel saluto e nell’osanna al duce, ora il più assillante desiderio era che le loro immagini scomparissero, scalpellate o almeno scialbate. Ma meglio scalpellate: ché a dargli di calce o di colore c’era pericolo che riaffiorassero; così come capitò a quell’avvocato che aveva fatto ricoprire, nel suo ritratto di presidente dell’ordine, il fascio littorio che si teneva accanto, e si sentì un giorno telefonare dall’usciere la notizia che il fascio era ritornato”.

Vittorio Sgarbi

 

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA


Roberto Stelluti è nato il 13 settembre 1951 a Fabriano, dove vive e lavora. Dal 1970 ha partecipato alle più importanti rassegne nazionali della grafica. Tra le presenze più importanti ricordiamo: Premio <<Omaggio a M. Mazzacurati>> (Alba Adriatica,1971), III Biennale dell’Incisione Italiana (Cittadella, Padova, 1979), II Biennale d’Incisione <<Alberto Martini>> (Oderzo,1990), <<VII Triennale dell’Incisione>> (Museo della Permanente,Milano,1994) ,<< Dalla Traccia al Segno. Incisori del Novecento dalle Marche>> (Mole Vanvitelliana,Ancona,1994), <<13° Saga>> (Parigi Expo,1999).Si sono interessati al suo lavoro studiosi e storici dell’arte come F. Clerici, L. Sciascia , G. Soavi, V. Volpini, G. Zampa, F. Zeri.

 

Non so quanti siano oggi, in Italia, gli acquafortisti veri (Baudelaire direbbe “gli acquafortisti nati”). Non molti, pare…. Di Roberto Stelluti, fino a sei mesi fa, non sapevo nulla. E’ stato ad Agugliano, appunto alla galleria “L’incontro”, che l’ho scoperto. Sfogliando le cartelle che c’erano intorno, mi colpì un “sottobosco” in acquaforte. Alquanto decorativo ma, con tutti i sacramenti, acquaforte: di acquafortista vero, di acquafortista nato.

Leonardo Sciascia

L’arte di Roberto Stelluti, a differenza di molti suoi contemporanei, non abbandona la strada maestra della pura incisione. Non s’industria con sistemi di riproduzione ove l’iniqua esigenza del mercato pretende la presenza del colore. La strada percorsa dall’artista di Fabriano è quella tracciata dai maestri d’un tempo. Col solo graffio d’un ago sulla cera riuscivano a oscurare o illuminare l’immagine.

Fabrizio Clerici

E’ raro che in queste immagini si presenti la figura umana; essa è piuttosto implicita nei sedimenti, nelle stratificazioni lasciate, come un taglio geologico in quelle splendide testimonianze del tempo passato che sono L’armadio realista (1978), Omaggio a Giorgio Morandi e Oggetti nello studio ,ambedue del 1980….Lascio ad altri il commento tecnico e formale dell’opera di Roberto Stelluti, che per me costituisce un’esperienza di rara profondità, di sottile, poetica suggestione.

Federico Zeri

 

 

 

COLOPHON

L’acquaforte originale contenuta in questa cartella, quinta della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte di cm 26 x 20 è stata impressa a mano dallo stesso artista in Fabriano, su carta Magnani delle Cartiere Magnani Pescia su fondino incollato in 100 esemplari , 80 in numeri arabi, destinati ai Soci , 10 in numeri romani , e 10 prove d’autore riservate all'artista.