Cartella N. 9 - Natale 2003: Vincenzo Consolo / Antonio Calascibetta: "Qua Qua Ra Qua"

Sciascia: tra Goya e Dürer

Sapevo che in Sicilia, nel centro del deserto siciliano, c’era uno scrittore di nome Leonardo Sciascia, lo Sciascia, fino a quel 1964, delle Favole della dittatura, La Sicilia,il suo cuore, Le parrocchie di Regalpetra, Morte dell’Inquisitore, Gli zii di Sicilia, Il giorno della civetta,Il Consiglio d’Egitto. E avevano, quei libri pubblicati da Bardi, Laterza, Einaudi, copertine con riproduzioni di disegni e di pitture di Emilio Greco, Nino Caffè, Renato Guttuso, Goya, Anonimo secentesco. Un particolare del disegno di questo Anonimo illustrava la copertina di Morte dell’Inquisitore.La riproduzione completa della stampa, ripiegata in tre parti all’interno, rappresentava un Auto da fe, lo spettacolo di una processione dell’Inquisizione, a Palermo, un sinistro serpentone che dallo Steri si snodava fino alla Cattedrale. In quella stampa lo “spettacolo” era dettagliatamente rappresentato, spettacolo che poi il Pitré, in Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso aveva minuziosamente descritto. “ Squilla la tromba, e tutto il popolo, preavvisato dai tamburi, viene chiamato allo Spettacolo. Preceduto dal vessillo della Santa Inquisizione, esce dal Palazzo del Sant’Uffizio il festivo corteo…”

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Titolo: Qua Qua Ra Qua

Autore: Antonio Calascibetta (Momò)

Testo di: Vincenzo Consolo

Misure Lastra: cm 30x25

 

Così l’incipit di Pitré. E che festa, noi diciamo, quella in cui si bruciavano vivi i condannati, come il fra Diego La Matina di Sciascia!
Sapevo dunque di Sciascia, di questa luce laica e loica, illuminista, che splendeva in quegli anni tra i fumi sulfurei di Caltanissetta (la città ch’era forse anche stata in passato una “piccola Atene”, come affermava lo stesso Sciascia), nel tetro grigiore dell’infinito crepuscolo civile e culturale della Sicilia (l’isola su cui ormai gravava, nel compiacimento generale, la sentenza di “irredimibilità” del principe di Salina, del Gattopardo).
Sapevo. E così, quando nel novembre del 1963 venne pubblicato, da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo, nella mondadoriana collana di ricerca Il Tornasole, il mio primo romanzo, La ferita dell’aprile, sentii il dovere di inviare il libro a Sciascia accompagnandolo con una lettera in cui dichiaravo il mio debito nei suoi confronti,nei confronti della lezione letteraria e civile che egli mi aveva impartito con i suoi libri.
Lo scrittore mi rispose chiedendomi chiarimenti sulla particolarità linguistica del mio racconto, che era contrassegnato da un forte mistilinguismo, chiarimenti sulla zona dei Nèbrodi in cui la vicenda si svolgeva. E m’invitava anche, Sciascia, ad andarlo a trovare a Caltanissetta. E andai, in un giorno di luglio del ’64, in quella città “remota”, in quella capitale dello zolfo.
Avevo già incontrato, da studente a Milano, alcuni scrittori, Bacchelli, Quasimodo, Vittorini, e quindi, in Sicilia, il poeta Lucio Piccolo, ma l’incontro con Sciascia, per comunanza di patria( patria,dico, culturale, letteraria, morale) fu per me il più importante.
In quella casa di via del Redentore, nello studio dello scrittore, ritrovai, incorniciata e appesa al muro, la grande stampa dell’Anonimo secentesco, la rappresentazione dell’ Atto di fede della copertina di Morte dell’Inquisitore. Poco tempo dopo ebbi in dono un libretto intitolato Jaki, con il testo di Sciascia. Leggendo il quale seppi che Jaki del titolo era lo pseudonimo dell’incisore jugoslavo Joza Horvat. “ Jaki fa la guerra ai demoni antichi e nuovi, alla natura e alla storia, ai mostri  che la natura suscita e che il sonno della ragione produce. Ed ecco che abbiamo nominato Goya: ‘ El sueno de la razon produce monstruos ’, i capricci, i disastri “. Ecco che attraverso le incisioni di Jaki,riprodotte nel libretto (Cavallo ferito, Animale fantastico, Bogus, Animale degenerato…), per i Caprichos e Los desastres de la guerra di Goya, si risaliva a quella stampa dell’Anonimo secentesco che rappresentava un Auto da fe: ecco che si arrivava ai “demoni”, ai “mostri della storia”. Si arrivava a quei due capolavori sciasciani dell’orrore e della pietà che erano Morte dell’Inquisitore e Il Consiglio d’Egitto.
Amava le incisioni, Sciascia, le gravures (e i due termini, l’italiano e il francese, certamente per lui si caricavano di altro significato), e amava soprattutto le acqueforti e le puntesecche (ancora altri due termini significativi) che, con il loro segno nero, si potevano accostare alla scrittura;una scrittura che, passando dal negativo della lastra inchiostrata al positivo del foglio bianco, portava in sé una componente di imprevedibilità, poteva acquistare altro senso al di là delle intenzioni, e della mano, dell’artista. Era per lui, l’incisione, l’affascinante scrittura iconica più simile alla scrittura segnica, l’acquaforte più simile allo scrivere, che è “imprevedibile quanto il vivere”.
“Hay un diablo demente persiguiendo/ a cuchillo la lux y la tinieblas” ha scritto Rafael Alberti nel poema Goya.
L’illuminista Sciascia aborriva il “diavolo demente” dell’Inquisizione, della tortura, della pena di morte; aborriva le dittature, le violenze, i disastri della guerra, i poteri corrotti, la mafia, i capricci e le Disparates, tutte le demenze, le bestialità che il sommo Goya aveva rappresentato. E le rappresentazioni di questi orrori, le incisioni di Goya e dei goyeschi amava e raccoglieva, come memento e ammonimento dei “disastri” in cui la storia in ogni momento può precipitare, in cui l’uomo, il cittadino può essere annientato. E in questa linea, che chiamiamo goyesca, vi rientravano il surreale o metafisico di Fabrizio Clerici, il Clerici della copertina de La scomparsa di Majorana, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, L’affaire Moro; e ancora il Piranesi della Recitazione della controversia liparitana o il Jindrich Pilecek di Nero su Nero… E a pieno titolo vi entrava, nella linea goyesca, l’illustratore di Una commedia siciliana di Sciascia, vi entrava l’incisore dell’ allora Antonio Calascibetta, l’artista che ha assunto oggi lo pseudonimo di Momó e che è l’autore dell’incisione di questa cartella. Una linea goyesca, quella a cui appartiene Momó, linea che passa per Hogart, Boilly, Daumier, Grosz, Maccari: la ripugnanza vale a dire, espressa con la deformazione, con il grottesco, verso tutto quanto è sconcezza, vizio, arroganza, stupidità umana.
Amava il goyesco, l’illuminista Sciascia, ma insieme amava, il romantico Sciascia, le stampe che rappresentavano grazia e bellezza, la chiarità dell’equilibrio, dell’armonia. Amava le fanciulle di Emilio Greco, dalla grazia greca, appunto, o quelle un po’ ambigue, medusee di Bruno Caruso; amava i liberty sinuoso ed elegante di Grasset o l’incanto poetico di Bartolini, di Viviani o di Edo Janich.
Scriveva Sciascia nel catalogo di una mostra di incisioni del 1982: “…quel piacere che danno le carte, gli inchiostri, gli acidi, le morsure, i torchi, le stampe che ne escono ad una ad una, i neri intensi e vellutati o sfumati, le linee che si sentono al tatto, i colori vividi…”. Ecco, delle stampe che “escono ad una ad una” egli andava cercando, a Roma, a Milano, a Parigi, per una sua ideale e aurea collezione, i ritratti di scrittori, dei grandi di quella “superiore verità” che era la letteratura. E molti ne ha collezionato, dal Baudelaire di Manet a Voltaire, a Valéry, a Hugo, a Stendhal… I suoi amati, le sue gioie.
E poi, nella lucida, triste consapevolezza della fine, ritorna al nero, all’immagine allusiva e inquietante.
Una famosa incisione del Dürer fa da illustrazione della copertina e da leitmotiv a Il cavaliere e la morte, l’incisione intitolata Ritter, Tod und Teufel (Il cavaliere, la morte e il diavolo). Quel “cavaliere” del Dürer ha suscitato pagine di riflessioni, suggestive interpretazioni al critico Panofsky, ha dato modo a Lea Ritter Santini di rimandare a tanti scrittori che con quell’immagine si sono incontrati: Nietzsche, Mann, Hofmannsthal, D’Annunzio…
Per noi quel cavaliere di Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo. Un inquietante Max Klinger (un Klinger che ha letto Poe e che è stato letto da Hitchcock) Sciascia cita nel suo ultimo racconto di congedo, Una storia semplice.
I corvi neri che volteggiano sopra il corpo del Cavaliere disarcionato, sono i fanatici uccellacci del potere politico - mafioso. Quello che Sciascia ha combattuto con la sua spada,  la sua penna.

Milano, 22 / 9 / 03                 Vincenzo Consolo

Antonio Calascibetta, in arte Momò , nasce  a Palermo nel vicolo del Forno. Si laurea in architettura nel 1977 con Gregotti e Pollini e,nonostante l’intrigante passione per essa, opta per la pittura che aveva praticato sin da ragazzo. Alla mostra “Il sacro nell’Arte”, del 1977, presenta un’opera dal titolo “Processioni e Processi”che lo pone all’attenzione della critica. E’ dello stesso anno la sua prima esposizione personale che mette in evidenza i caratteri della sua vena satirica e grottesca che non passano inosservati all’attenzione di Leonardo Sciascia il quale,visitando questa mostra, ne rimane suggestionato. Esegue in questi anni diverse scenografie teatrali ,per trasferirsi poi nel 1982 a Milano. Nel 1983 sei acqueforti originali illustreranno “Una commedia siciliana”,testo di Sciascia pubblicato a Catania per le edizioni Orizzonti della Bibliofilia Italiana di Fortunato Grosso. Dal 1985 si susseguono le esposizioni di Calascibetta(tra queste,alla Fondazione Corrente, alla Galleria Philippe Daverio ); nel 1994 presenta la mostra “Labirinto” ,con testo di Vincenzo Consolo,presso la Galleria Antonia Jannone. Dedicatosi a progetti di architettura, scultura, mosaico, nella primavera del 2000 avvia la sua  nuova produzione artistica con il nom de plume Momò e con un sodalizio con Gino di Maggio alla Fondazione Mudima : qui tiene nel 2002 a Milano una mostra evento.

…Di uno dei suoi primi quadri,esposto alla mostra del <<sacro nell’arte>> nell’arcivescovado palermitano, il titolo era Processioni e processi; e questo si può dire che è il tema,costante fino ad ora. Tema cui è implicito,ad aggiungere imbestiamento ad una classe di potere già sufficientemente imbestiata nella più lata avarizia e nella più lata rapacità, quello di una sessualità senza gioia, in sé arrovellata.

Leonardo Sciascia

C’è offesa e risentimento nei quadri di Antonio Calascibetta, c’è aperta denunzia della colpa di Pasifae e bisogno, desiderio struggente di liberazione, d’uscita dalla nostra prigione, dal labirinto d’angoscia e dolore.

Vincenzo Consolo

Calascibetta dice, e bisogna credergli, che quando prende in mano la matita o il pennello per inseguire un’idea non sa bene quello che fa. Le mani vanno, sono loro che portano. Sembrerebbe una ricetta surrealista. Ma non è una ricetta, e il suo dipingere surrealista non è certo. Io lo vedo come un travaso puro e semplice –lubrificato da quel mestiere prioritario e fatto natura che impressionò Sciascia fin dagli esordi- di un’immaginazione in moto perpetuo, che si sbriglia senza mai perdere il filo nei più straordinari percorsi.

Fabrizio Dentice

Colophon

L’acquaforte acquatinta originale ,realizzata con due lastre di zinco e ottone di 300 x 250 mm, contenuta in questa cartella, nona della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'incisione è stata impressa su carta Magnani di 300  grammi, con i torchi di Daniele Upiglio nell’Atelier Quattordici- Grafica Upiglio22250 a Milano  in 100 esemplari numerati e firmati,  di cui 80 in numeri arabi, destinati ai  Soci, 10 in numeri romani e 10 prove d’autore riservate all' Artista.