Cartella N. 11 - Natale 2005: Antonino Cremona / Carlo Cattaneo: "Attori"

Notizia

Il linguaggio di Antonino Cremona è una sorta di patois girgentano fortemente personalizzato, che consente di sfogare un estro scapigliato e tenero insieme, soprattutto nei casi in cui esso viene applicato a tematiche amorose e soggettive o quando si volge a delicati affondi descrittivi (Occhi antichi, 1967).
Così la critica più autorevole (Il secondo novecento, Storia della Letteratura Italiana, diretta da Enrico Malato, Salerno Editrice, Roma, 2005, Vol. IX, Parte II, pag.1354) su una figura d’eccezione nella cultura italiana.
Coetaneo di Sciascia (che lo annovera tra coloro che lo avevano aiutato nell’impresa di Morte dell’inquisitore), redattore italiano della parigina Revue des lettres modernes, traduttore di Lorca, Heine, Machado, Eliot, poeta, saggista, prosatore e autore di teatro, avvocato civilista di professione, Antonino Cremona aveva scritto per noi - poco prima della scomparsa avvenuta il 24 settembre 2004 - due testi che qui con viva commozione si pubblicano. Alla testimonianza espressamente dedicata all’arte (Stampe con appassionamento) non abbiamo saputo resistere alla tentazione di aggiungere l’altra (Sciasciana) che, per il gioco del caso, diventa anticipazione di “Sciascia da giovane”, testo inedito che gli Amici di Sciascia daranno presto alle stampe per l’affettuosa curatela della figlia dell’autore, Ester , alla quale va la nostra gratitudine.

Francesco Izzo

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Titolo: Attori

Autore: Carlo Cattaneo

Testo di: Antonino Cremona

Misure Lastra: cm  24x30

Stampe con appassionamento

Oli, anche di terre impastate dall’artista: come ho visto Felice Filippini. Tempere, acquarelli – di solito si scrive acquerelli, ma l’acqua per questo modo di pittare è sempre una sola in tutto il foglio – e sanguigne, carboncini, fondi di caffè, gessetti, intrugli con la cenere. Acrilici. Litografie, serigrafie, xilografie. Disegni di qualsiasi pennellino, penna,pennino; di qualunque inchiostro (pure di quelli tipografici), matite, pastelli anche rifiniti con il coltello per svelarne le trasparenze. Acqueforti e acquetinte – qui sta bene segnare che s’intrufolano liquidi variamente abrasivi – bulini, puntesecche (come quelle che il magico Luigi Toccacieli traccia sul ginocchio, gambe accavallate), zuccheri, maniera nera. Su zinco, su rame, a matita grassa quale negli ultimi tempi Renato Guttuso usava o a china nel modo indelebile di Bruno Caruso. Legno e linoleum scavati. Maioliche, terrecotte, vetri dipinti, vetri graffiati, bronzi e bronzetti, pietre, marmi, pirografie, legni scolpiti, onici, ceramiche sì o no invetriate… Tutto quello che si vuole: il vizio mediterraneo di stendere cataloghi potrebbe occupare molte pagine. Non sorprende che l’Assemblea regionale siciliana dia mostre d’arte figurativa. Si è ricalcata sul Senato, emolumenti, divise, carriere; dalla Camera  ha preso  il titolo  di deputato- non consigliere- regionale, e l’appellativo di  onorevole che mette prima del nome dei suoi consiglieri (se qualcuno fa proposta di abolire l’appellativo, non è per finta modestia ma forse per dare forza alla somiglianza con il Senato). Queste mostre, per così dire, istituzionali non sono però sinora un’indebita ingerenza di qualche dirigismo politico nelle cose dell’arte. Ad oggi, i criteri sono stati irreprensibili. Anche se, alla fine, sono sempre scelte burocratiche ma di una burocrazia in questo argomento informata con buongusto. Diversamente da altro genere di burocrazia. Felice Filippini, ticinese, aveva tre mestieri: dipingere, narrare, dirigere i servizi culturali della Radio svizzera italiana dei quali ero un collaboratore esterno. Se n’inventò un quarto, portarmi in giro per la Svizzera. Così da Lugano, insieme a mia moglie, andammo nei Grigioni; a Lostallo dove lui teneva una mostra di oli, nello stesso luogo in cui Rosalda Gilardi Bernocchi – piemontese e ligure con studio a Losanna – esponeva le sue sculture. Ci attrasse, della scultrice, una Demetra: tre fantasmi di bronzo, su un’unica origine infissa in un tronco muschiato. Partì da Genova, e arrivò pacificamente a casa. Dell’amico pittore  scegliemmo un  Trasporto  notturno, soave  musica  in pittura per un funerale. Quel  concerto  dipinto  si  svelava guardandolo da  lontano, e da  lontano  si guarda  in casa  mia con tutta godibilità. Filippini non usa cornici, la stessa pittura stavolta ne ha la funzione per tratti dorati di pennellessa. Il grande quadro partì da Lugano, ebbi avviso dell’arrivo dalla dogana di Porto Empedocle. Andai a prenderlo, ma il doganiere intesseva le sue chiacchiere: la cassa è grande, chissà quanto deve pagare. A certo punto lo convinsi ad aprire, lievemente, io stesso aiutando lui e i suoi assistenti. Lampeggiava l'oro pitturato (ah, lui squittiva, è una cornice barocca; certo, chissà quanto deve pagare) e io continuavo a chiedere lentezza, frenavo l’uscita del quadro che lui invece era impaziente di vedere. Si mise proprio le mani fra i capelli, quando il dipinto fu tutto liberato: ma che cos’è, sono macchie scure altre bianche, certo lei lo manda indietro. Gli spiegai che l’autore già  allora era ben conosciuto nel nordeuropa, comunque era un amico, tornarlo sarebbe stato uno sgarbo, e il quadro m’interessava. Tela di juta sporca intelaiata, si lesse nella quietanza. Pagai tre o quattro lire. Non c’erano fotocopiatrici, allora. Feci fare una fotografia,la mandai a Filippini con dedica. Quando sarei potuto diventare senatore senza tessera di partito, del collegio di Girgenti allora ‘sicuro’ per la sinistra, avrei proposto una mostra – in Senato – anche di quel pittore intero ch’è Santo Marino. Ma non avevo i quarant’anni, che occorrevano  affinchè la  candidatura fosse  accettabile. Santo Marino mai è in mostra al Senato, non ancora nell’Assemblea regionale, ma quando ero ai vertici del sindacato degli scrittori potei fare in modo che (oltre alle estese delegazioni estere) venissero ospiti del congresso nazionale lui e Guttuso: un incontro o un confronto muto, senza quadri, dei due massimi pittori dell’espressionismo siciliano: uno della Sicilia orientale, l’altro di quella occidentale, giacchè l’oriente e l’occidente della Sicilia non sono la stessa cosa. In verità, a Guttuso quel mio discorrere di espressionismo a proposito di pittori siciliani non piaceva troppo; anche se cercavo di spiegare che l’espressionismo nordico è violenza, quello dei siciliani è sofferenza. Neppure meraviglia che il catalogo della mostra di Bruno Caruso, all’Assemblea Disegni 1944-2004, sia edito dalla Fondazione Federico II che dell’Assemblea è una dipendenza. Data l’improvvisa giravolta di Fini, per sfortuna non quello dei bei salumi, scorre liscio come l’olio d’oliva nocellara che la premessa al catalogo – firmata dall’An presidente dell’Assemblea – abbia toni che anche il più estremo partigiano della Brigata Garibaldi potrebbe sottoscrivere. La ragazza viennese che appare improvvisa come un miraggio, i legnami di assoluto fascino geometrico, i denti, mani, piedi dei personaggi, occhi spalancati (tanti dipingono gente senz’occhi o con gli occhi chiusi, non riescono a renderne le luci), le siepi, le palme,  le dracene,  grafica  inarrivabile riprodotta in questo prezioso volume, sono accompagnati da un’avvincente confessione dello stesso Bruno Caruso ma con una brusca chiusura: <<Hanno scritto sui miei disegni>> […] <<e un migliaio di altri autori. Pochi addetti ai lavori non hanno mai scritto un rigo ed io, in fondo, me ne posso vantare: per la loro ignoranza, per la loro innata volgarità e per la venalità che li domina. Devo dire che questo sfogo non mi sfiora, giacché non mi ritengo addetto ai lavori. Però è opportuno riflettervi un momento, perché Bruno Caruso non è inciampato in un eccesso caratteriale. Al fondo vi è la ragionevole insofferenza per il distacco, melenso, che prosegue generalmente a esservi tra gli scrittori e gli altri artisti. Anche si è detto che i migliori critici dei pittori – e scultori, via di seguito – sono gli scrittori (narratori, drammaturghi, poeti) ma le dimensioni del fossato, che distanzia queste categorie di autori, sono vistose. Hai voglia di riprodurre opere d’arte nei libri degli autori di parole, l’effetto e forse anche lo scopo è sempre quello: averne decorazioni. Illustrazioni, qualcosa di complementare però  sicuramente secondario. Salve rare e nobili eccezioni come quei libretti di Antonella La Monica, in sinfonia di versi, con gli smalti creativi di Oscar Carnicelli. Magari potrebbe essere quel fossato una conseguenza di qualche  complesso,  non  specifico,  di  superiorità –  peggio, d’inferiorità – di scrittori verso artisti che scrivono: ve ne sono stati, e ve ne sono, mirabili. Una sorta di reazione inconsapevole, forse.
Ho avuto a suo tempo conversazioni amichevoli con Bruno Caruso, nello studio di Guttuso e occasionalmente persino in aereo, e posso asserire che lui è persona generosa responsabilmente consapevole delle proprie eccellenti qualità grafiche e pittoriche. Peraltro, arricchite con una finissima sensibilità solidaristica e una splendida sicurezza ideologica dentro un’enorme cultura. Questo naturale porsi di Bruno Caruso non poteva non sollecitare l’attensione, persino l’affetto, di Leonardo Sciascia. Il quale, certamente, era versato al godimento notomizzante e allo studio delle cose d’arte. Con un debole per le ‘stampe’, per la stessa varia carta delle stampe, con una propensione istantaneamente intellettiva e sensoriale. E con un fiuto infallibile nell’individuare le virtù dei veri artisti. In tanti decenni di presentazioni di mostre, di premesse in cartelle e in cataloghi, ho raccolto una non trascurabile quantità di opere (anche sculture da posare, altre da appendere: per fare un esempio, Giuseppe Agozzino il seniore) che ricoprono le mie pareti e che affollano i miei luoghi di deposito. Ma si potrebbe comporre un volume, aggregando in schede le stampe che Sciascia – nella molta considerazione del  prossimo e  nella  bastevole  stima  di  sé  stesso – mi  ha donato. Per un impulso affettivo, tutte quelle di sua provenienza sono alle pareti. Le altre: raccolte a mucchi in vari angoli della casa, da sfogliare con delicatezza, odorare tenendo i bordi fra gli indici, guardare controluce indovinando il verso della lastra. Le rivisitazioni procedono con uno sguardo d’insieme alla pagina, una parcellizzazione visiva, di nuovo lo sguardo d’insieme e la soddisfazione di avere visto. Al muro, e avuto dalle mani di Sciascia, anche un pezzo unico di Bruno Caruso: un’incisione tirata a sola impremitura, bianco su bianco, ma questa di suo dono è una prova ad inchiostro (la falce di luna con il poeta arabosiciliota a cavalcioni, i minareti in basso a fare da sfondo). E una tiratura postuma di Renoir, le dame con i cappelli trafitti da spilloni. Tanti stranieri, e autori del nord e del sud e dell’est europeo. L’incredibile Keep Left in cui Costantini ha fuso quattro diversi punti di vista. E’ grandioso il numero di artisti che gli ho presentato, e quello di quanti mi ha fatto conoscere. Tutti sanno che dai Quaderni di ‘Galleria’, che lui ha inventato e diretto, è passata la schiera degli scrittori di seconda metà del Novecento. Pochi si sono accorti che le pubblicazioni saggistiche dei Quaderni hanno rivelato, oppure riscoperto, incisori che sono apparsi in quell’arcobaleno sciàscico per poi ottenere stima o pure entusiasmo da parte degli amatori di stampe. Anche questa  pochezza di  attenzione dà  conferma  allo sfogo di Bruno Caruso. Quanto a me, privo di occasioni per scrivere di lui, continuo a vedermi non addetto ai lavori.>>

Antonino Cremona

Sciasciana


La notizia che a un nuovo asteroîde é dato il nome di Leonardo Sciascia porta di nuovo alla sua tomba: ce ne ricorderemo di questo pianeta.
Che insieme è Racalmuto quanto è la Terra. Dunque, Leonardo è lì a percorrere i cieli. A gloria dei girgentani, nella stessa area del pianeta Empedocle e dell'asteroide Luigi Pirandello.
Racalmuto/mondo è la sua terra, in effetti non Girgenti. I racalmutesi per motivi burocratici appartengono ad Agrigento, ma la loro mente è rivolta a Caltanissetta e alla Sicilia orientale. Caltanissetta era uno dei castelli di Girgenti, però abo¬lito il suo Vallo di amministrazione berbera - e poi messo un vescovo a Caltanissetta - Girgenti dovette rinserrarsi nelle sue mura e vedere fiorire economia e cultura nelle zone nissene. Né muove qualcosa il fatto che, di recente, la diocesi sia stata  fatta arcivescovile e che l'arcivescovo sia metropolita di un territorio che all'incirca riproduce il Val di Girgenti.
Più volte Leonardo scrive del mio paese, come luogo a lui estraneo (i suoi studi naturalmente avvennero a Racalmuto e a Caltanisetta) anche se finisce per assumere quale padre, uno dei padri ma fra i più notevoli,  Luigi Pirandello. E quella notizia mi riporta all'antica idea di mettere insieme i miei numerosi saggi a lui dedicati, scrivendo un libro intitolato Sciascia da giovane.
Sua figlia Anna Maria si é commossa, tempo addietro, per telefono ascoltandomi: voi appartenete alla mia crescita. Sono stato sempre intrinseco alla sua famiglia, da quando ero molto giovane. II nostro colloquio, spesso silenzioso ma vivace di sguardi , continua ancora. Solo che - pure dopo la sua morte - me lo sentivo accanto, ora devo alzare gli occhi per scrutare fra le nuvole.
Mio padre era avvocato, fra i suoi clienti il notaio di Racalmuto. Il quale, ogni tanto,  mandava il figlio minore (già laureato) per varie occorrenze. Ero studente all'università, ma stavo molto nello studio. Dai miei 4 anni come correttore di bozze,  via via aiutando i commessi,  facendo da segretario, da ricercatore di dottrina e di giurisprudenza, infine stilando le difese. Aldo Alàimo, il figlio del notaio, arrivò una volta per me; non per mio padre.
Mi porse un poco spaurito La Sicilia, il suo cuore e Le favole della dittatura, aggiunse Il fiore della poesia romanesca: Sono di un mio compaesano che chiede il permesso di venire a conoscerla. Ovvia la risposta: liberissimo, non occorrono permessi.
Nei giorni mi posi a leggere quei libri, uno dopo l'altro.
Da qualche tempo avevo avuto il permesso di occuparmi anche di filosofia e di letteratura, vicenda in cui Eugenio Montale aveva avuto un inconsapevole ruolo. Scrivevo su giornali e  riviste, collaboravo a servizi culturali della Rai e della Radio Svizzera Italiana, Emilio Mariano si era determinato a farmi dirigere la sezione albanese e quella berbera tuareg dell'Orfeo antologia della lirica universale - per una seconda edizione meno incompleta, che non sì fece mai - ed ero il redattore italiano, uno per ogni lingua, della parigina Revue des lettres modernes. Non lo sapevo, ma la richiesta di Leonardo Sciascia mi fece intravedere che allora forse contavo qualcosa.
Non vi fu bisogno che venisse a trovarmi. Mario dell’Arco mi avvisò che sarebbe stato a Palermo nei tali giorni per un convegno, finalmente ci saremmo potuti incontrare di persona. Anch'io ero invitato, e mi preparavo ad andarci. Ci avevano alloggiato nell'Hotel Centrale, per caso l'albergo di abitudine della media borghesia girgentana. Leonardo e Mario parlavano in un angolo della hall. Dalla lettura di quei tre libri avevo potuto capire le origini anche franco ispaniche della cultura di Leonardo, la sua creatività non moraleggiante ma etica, la sua capacità di coniugare l’impegno civile con l'introspezione saggistica e peraltro con la scioltezza narrativa (una scrittura che via via si fece  sempre più stratificata, ammiccante, ammirevole). Eravamo tutti e tre contenti. 
 Andammo a dormire, ognuno nella sua stanza. Leonardo bussò: Chiuditi bene a chiave,- all'improvviso potrebbe entrare qualche donnina, non si sa mai. Temeva che potessi contaminarmi con una ragazza d'albergo. E rivelava, subito, un attaccamento fraterno.
   Di quel convegno, Ester (mia figlia, maestra d'incisione) conserva una fotografia. Siamo seduti su un divano di pietra, tutti a gambe accavallate, dal primo piano allo sfondo Leonardo poi Francesco Leonetti e Mario Colombi Guidotti – che da lì a poco sarebbe stato ucciso in un incidente stradale - Mario Boselli, in ultimo io che scelgo sempre i posti più in ombra. Ricordo la commistione di nuovo e di vecchio, bestie locali che davano della bestia a Carlo Bo perché avevano il ciclostilato della sua relazione... senza punti a capo (non capivano che quelle erano due cartelle con ogni frase intima all'altra, come un formaggio a pasta filata: non si può spezzare se non si smette di filarla), la cena con Mario La Cava e Rocco Scotellaro, Rosso di San Secondo con cappotto e tasco camminava dolcemente appeso al braccio della moglie, gli scrittori tutti assiepati attorno a Elio Vittorini, Enrico Falqui che in ascensore guardava il soffitto mentre Gianna Manzini sorrideva al prossimo (però forse questo riguarda un'altra occasione, quando Mario La Cava guardava l'orologio e con l’arguzia degli animi candidi si stupiva: E' mezzanotte, torniamo a casa¬ come i debosciati).
Leonardo cominciò a frequentare l'abitazione e la tavola di mio padre, che considerava i miei amici come suoi. Furono ospiti in casa lui e sua sorella, quando suo padre per un ictus fu ricoverato all'ospedale San Giovanni Di Dio.
Andavo via dallo studio attorno alle 19, in 20 minuti con la strada vecchia ero da Leonardo a Racalmuto nella salita Regina Margherita. Quasi ogni sera. La moglie offriva ciambelle. Le bambine guardavano in silenzio. Alle 20, dopo un'intensa conversazione, ero già nell'automobile.
Non è vera amicizia se non c'è l'invito al desinare. Leonardo abitava un piano in casa delle zie. Una domenica mi trovai a pranzo. La moglie era andata dalla sorella, a Catania. Eravamo a tavola Leonardo e io. E un antipasto  di uova sode. Si sente raschiare alla porta, Leonardo la socchiude e prende i piatti di maccheroni al ragù. Di nuovo si sente raschiare, s'intravede la mano che passa il pollo alla brace morbido e croccante. Così per le cotolette, fritte con le patate tagliate alla francese. È  la zia Nica, la quale non vuole farsi vedere. La frutta è in tavola, come l'acqua e il vino, e il cuscus dolce che io avevo portato e che attrae molto Leonardo. 
Ma nessuno vada adesso dalle benedettine del Santo Spirito, qui a Girgenti, per quel cuscus di mandorle inverdito di pistacchio o per pasta reale a forma di triglie e di conchiglie traslucenti argento e rosa - imbottite con crema di fastuca, che sarebbe il pistacchio - perché queste raffinatezze si trovano oggi meglio nelle comuni dolcerie: non ci sono più 1e suore antiche, quelle giovani non hanno imparato bene.
Pirandello e il pirandellismo feci pubblicare dalla Revue in tre puntate nella traduzione di Michel Boyer. Tale fu il successo del primo affacciarsî di  Leonardo alla Francia che quei numeri furono ristampati tre volte. Intanto il libro ebbe il premio della Regione Siciliana, e dovetti intervenire da avvocato perché all'autore avevano dato una busta vuota.
A Roma, Leonardo stava al Santa Chiara. Io in via Nemorense. Era venuto in mente a Rosario Assunto e Ignazio Silone che andassi a presentare nel Circolo della Stamperia l'ultimo libro di un giovane scrittore siciliano ma di 11 anni più avanti di me, Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra. Leonardo mi telefonò che voleva vedermi, prima che iniziasse la serata. Sapeva che avevo uno scritto, non avrei parlato a braccio data la complessità degli argomenti. Voleva vedere quel testo, per evitare che vi fosse qualche incensatura dovuta all'amicizia. Gli spiegai che proprio l'amicizia derivava dalle sue qualità umane e intellettuali, ma volle ugualmente leggere per stare tranquillo.
Altre domeniche sono stato da lui, e tutta la sua fami glia, alla Noce nella casa vecchia stipata di libri gialli e d'ogni genere. Altre volte (in visita) mi accompagnavano poeti e poetini, giornalisti, narratori in erba, che cercavano la sua benedizione. Lui riceveva tutti, gentilissimo e attento con tutti. Maria Andrònico, la moglie, sorridendo portava il gelato. Si sa che dietro ogni grande uomo c'è una grande donna. Questo non riguarda Maria, perché ha saputo sempre stargli accanto.
Non è possibile - mi disse - che continui a tenere i tuoi versi nel cassetto. Era venuto a prendersi quello che poi fu Occhi antichi per i Quaderni di “Galleria”.
Gli scrissi che avrei sposato una ragazza alta e bruna, occhi verdi, e avevo saputo ch'era figlia di un fratello di sua madre. Com'è piccolo il mondo, rispose. Venne al matrimonio, in cattedrale com'era divenuto indispensabile. Mormorò a Pietro Amato una domanda retorica: Chissà se questo vescovo crede in Dio... Nel ricevimento qualcuno obbligò, gli sposini a bere lo spumante incrociando le braccia. Arrivò al tavolo: Dopo avere visto questo me ne posso andare.¬
        Si trasferì da Racalmuto. a Caltanissetta. Lì -andavo spesso con mia moglie per trovare i suoceri, e anche lui. Mi prese¬ da canto: io non scrivo più di te, e tu non scrivi più di me, non voglio che la cuginanza induca a dubbi. Ma (risposi) ognuno di noi due è sempre stato oggettivo, senza favori, così continuerà ad essere. No, insistette, ascoltami perché come ti dico io è meglio. Non mi giunsero più i suoi libri dall’editore. Continuai a fargli avere í miei. E lui mi rispondeva per lettera.
Venne, in Sicilia, Ciril Slobes - lo scrivo come si pronunzia perché il computer di chi copia le mie cose, scritte a mano, ancora non possiede i giusti caratteri - e immancabilmente giunse a Girgenti, con moglie e figlio, a casa mia con Leonardo e con Pietro Amato attento  custode di memorie sciasciane e suo critico acuto. Leonardo, in quel tempo, aveva una verghiana passione per la fotografia. Ci ha ritratti dovunque (a casa e fuori casa, nella valle dei templi, proprio dovunque) in gruppo e singolarmente. Prima che mi arrivasse il londinese Geoff Howard con ombrellini  e filtri per una rivista del Giappone, i migliori miei ritratti - a parte che non amo la mia iconografia -  sono quelli scattati da Leonardo.  Un pomeriggio lo trovai in apprensione. Non si decideva sui due finali che aveva pensato per L’onorevole.  Gli dissi la mia preferenza. Usò quella, dopo altre esitazioni.
Quando fece la casa nuova alla Noce, le nostre soste familiari divennero d'estate più intense. Lui cucinava gli spaghetti col tonno, e quelli con i peperoni crudi, uova e salsiccia e verdure sotto la cenere, offriva vini pregiati che non beveva per evitarsi un immancabile mal di capo. Le donne impastavano fuazzi e unchiateddhi , cioè focacce e gonfietti, e li cuocevano nel forno. T'impegno un terreno accanto al mio, diceva, così ti ci costruisci una casa. Si arrese quando, per l'ennesima volta, gli spiegai che i miei orari d'avvocato non mi permettevano di tenere casa in campagna. 
Venne sua madre con la falletta colma di germogli neri, rotondi: Peccato, questi acculazzàti stavano per andare a male. Leonardo ebbe un gesto di sorpresa, subito ne rise amaro; ormai il campicello d'angurie era distrutto.
Aveva una mira infallibile. Metteva in piedi su un muretto la monetina di 5 lire, allora la più piccola, e da lontano la centrava sempre: con il suo flobert. Mi offriva di sparare, ma al flobert io ho sempre preferito Flaubert.
Poi ha messo su casa a Palermo, dopo il soggiorno romano milanese.
Splendide serate in terrazza con gli Sciascia e Ferdinando Scianna; Francesco Giunta,  tanti. Leonardo, quando restavamo soli, metteva in forno i funghi: un filo d'olio e una macinatina di pepe nero. Mangiava l'uovo scaldato tenendolo in mano. Lo lasciò cadere, allibendo, quando la figlia Laura narrava di certi indici di nomi in cui Boccaccio veniva inserito come Giovanni giacchè l'Alighieri figura come Dante.
   Non uscivamo mai da casa sua senza avere in dono una stampa,  o un libro magari in prestito. Noi eravamo i suoi “fornitori ufficiali” del cuscus delle suore. Un giorno si presenta con un fascio di carte: le sue ricerche su Flavio Mitridate maestro di Pico della Mirandola, ebreo girgentano (in verità, di Caltabellotta ma formatosi a Girgenti) che ignoravo come davvero si chiamasse - prima che Angela Scandaliato mi avesse ora fornito notizie sul fervore di studi berlinesi circa questo personaggio - perché gli era stato imposto il nome di Guglielmo Raimondo Moncada, quello di chi l’aveva liberato dalla schiavitù. Tieni (disse) so che fai le stesse ricerche, a me non interessa più perché ho capito tutto, sono preso da altri. interessi. Erano la sua visione del futuro, anche meno prossimo. Quelle carte sono ancora conservate, nonostante la tragedia pressante (divenuto prete cattolico, ciantro della cattedrale, predicatore nella corte di tre papi, alla fine bruciato vivo essendosi scoperto che davvero non si era mai convertito e fingeva per proteggere i correligionari) forse perché, e sono quattro decenni, ancora non ho risolto cosa si cucinasse nei vari suoi luoghi prima della scoperta dell'America né se farne un racconto o un poema o una cosa di teatro.
All'improvviso mi propose: Faccio una collanina con Einaudi, ogni scrittore si occupa del suo paese – personaggi particolari, cose, luoghi, modi di dire - in varie schede, tu fa Girgenti e poi definiamo. Non ne seguì nulla, perché in pochissimi (meno di cinque) accettarono l'invito.
Penso che mantenesse la pronunzia racalmutese e genericamente siciliana, pure parlando in italiano, per segnalare la propria identità anche quando risaliva dal “particulare” di Guicciardini al giudizio sull'universo.
Aveva mente geometrica, adatta a capire tutto: dalla musica alla sostanza del diritto. Alcuni di noi si auguravano di poterlo avere presidente della Repubblica. Purtroppo, la sua vita fu più corta. Ma la commissione che dà il nome ai corpi celesti ha stabilito che vigili da lassù.
Di sera, stavamo passeggiando in viottoli della Noce. Ci accompagnava una lucciola. Con noi c'è Pasolini , dissi. C'è  sempre Pasolini,  rispose.

Antonino Cremona

NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA 

Carlo Cattaneo, nato ad Alassio nel 1930,vive e lavora a Roma. Nel 1947 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma e segue il corso di Roberto Melli al quale resterà legato da profonda amicizia. Espone per la prima volta nel 1949 alla galleria “La Vetrina” di Gaetano Chiurazzi. Ritorna ad Alassio nel 1956 per dedicarsi alla scultura e alla ceramica. Nel 1971 vince il Premio Mazzacurati. Un anno dopo è invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1980 una sua incisione è ospitata nella collana de <<La civiltà perfezionata>> di Sellerio per Il fiume Alfeo di Roger Caillois ,tradotto da Maria Andronico. Nel 1987 vince il Premio per la pittura alla XXX Biennale Nazionale d’arte Città di Milano. Gli viene conferito nel 1994 il Premio del Presidente della Repubblica dall’Accademia Nazionale di S.Luca. Riceve nel 1995 a Roma il Premio Michelangelo Buonarroti, insieme a Roberto De Simone, Giancarlo Menotti, Sergio Quinzio, Carlo Rubbia e Giorgio Soavi. Ha illustrato moltissimi libri; spesso con incisioni originali. Numerosissime le sue mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Di lui hanno scritto, tra gli altri, Rossana Bossaglia, Raffaele De Grada, Guido Giuffré, Antonello Trombadori,Vittorio Sgarbi, Roberto Tassi.


Visionario- Carlo c’è nato. Chi avrebbe potuto amputarlo? Ecco uno che ha conservato sempre, invidiabilmente, il suo patrimonio di organi invisibili. Senza questi siamo anime morte. Scriveva Artaud: “Quando vivo io non mi sento vivere. Ma quando recito, allora sì che mi sento esistente”. Togli il recito e metti dipingo o disegno e avrai la verità di Hokusai e quella di Carlo, e di tanti altri. Ma se il monte Fuji si leva indenne dalle visioni di Hokusai, la Sainte-Victoire è restituita altro dalla visione di Cézanne ed è molto improbabile che una qualsiasi cosa esca indenne dalle visioni di Cattaneo….. Carlo sarebbe stato un fantastico assistente e trovatore di oggetti nei  cliquotages diretti da Tadeusz Kantor- Théâtre de la Mort , cartaccia, trucioli, bidoni, foto,manichini, e l’anima che attardata e irrequieta spipistrella in quegli addobbi di cataste per gli arcani riti dell’espressione. Teatro per ore d’aria all’interno della prigione Vita.

Guido Ceronetti

Cattaneo è autore singolare e coinvolgente. Porta un nome impegnativo, ma anche la sua pittura e la sua produzione grafica( inchiostri, pastelli, acquarelli e incisioni)- come subito notarono intellettuali di valsente come Ceronetti e Carlo Levi- si svolgono sotto le stesse insegne. I suoi fogli accennano a un turgore e a un affollarsi oscuro, greve. Ma la distinzione dei segni pittorici, tracciati su carta, e la forza dirompente dei fogli, non hanno conio ad alcun livello del discorso espressivo che non sia quello medesimo  di una poetica che, in tanto s’ingegna nelle proprie forme e modalità, in quanto più s’amalgama con la vita complessiva dell’universo cattaneoiano.

Floriano De Santi


Chissà se Cattaneo ha letto quel testo teatrale di Bernhard che si chiama Minetti , come il notissimo vecchio attore di questo nome che in questa piéce recita sé stesso ma anche la storia di un altro, e che circondato dalle maschere, sogna di poter indossare quella che Ensor ha dipinto una volta per lui e di recitare con quella maschera il Re Lear di Shakespeare. Ensor del resto è un nome che viene subito in mente guardando i quadri e disegni di Cattaneo,come il nome di Schiele o quello di Goya, gli unici pittori che in Antichi Maestri il musicologo-filosofo Reger salva dalle sue invettive contro la cultura dominante.

Eugenio Bernardi


COLOPHON

L’acquaforte originale contenuta in questa cartella, undicesima della serie "Omaggio a Leonardo Sciascia", è pubblicata a cura  dell’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte su fondino di 240 x 300 mm su foglio 350 x 500 mm è stata impressa a Roma  nel dicembre 2004 su carta Magnani Pescia di 310 grammi, colore naturale, sui torchi di  Luigi Ferranti nella stamperia L’Acquaforte. Dei 100 esemplari  tirati,  80 hanno numerazione araba e sono destinati ai  Soci, 10 numerazione romana e 10 infine sono prove d’autore riservate all' Artista. I due testi di Antonino Cremona  appositamente scritti  per questo “Omaggio”, sono stati stampati da Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, nel mese di ottobre 2005.