Courtine, che fu suo amico, rivela le passioni culinarie di Simenon: dai piatti dell’infanzia alle cene tipicamente parigine, e raccoglie le migliori ricette di Madame Maigret, illustrate dalle fotografie di quella Parigi degli anni ‘50 che Simenon e Maigret amavano percorrere, la pipa in bocca… prima di sedersi a tavola. Ricordare che Sciascia amava in modo particolare Parigi, era un buon lettore di libri “gialli” e in particolare apprezzava Simenon e Maigret, ci porta lontano.
Torniamo a Vullo e al suo libro. “Questo libro”, annota Carlo Petrini nella prefazione, “è una lettura curiosa e stuzzicante, perché consente ancora una volta di capire quanto la civiltà contadina di questo nostro paese abbia avuto un ruolo centrale nel plasmare non solo ciò che siamo oggi, ma anche il patrimonio artistico e culturale di cui l’Italia può vantarsi”. Da qui, una riflessione su una realtà con cui si dovrà, prima o poi, fare i conti: finita la seconda guerra mondiale, una buona parte della popolazione italiana lavorava ancora i campi, era impegnata nell’agricoltura e si produceva praticamente l’intero fabbisogno di cibo. Vero è che quello del contadino è un lavoro duro, faticoso, impegna e quello che si ricava non è regalato; se si preferisce fare altro che coltivare la terra, lo si può capire. Non so quanti sappiano, per esempio, che circa la metà degli incidenti sul lavoro, da sempre, riguarda contadini, agricoltori, vittime dei loro trattori… Ma al netto delle motivazioni e delle possibili spiegazioni, il fatto è che le campagne si spopolano, si coltiva sempre meno, la popolazione e il fabbisogno dei prodotti della terra, aumenta. Un fenomeno di indubbio “impoverimento” che Sciascia aveva individuato una quarantina di anni fa, in “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”, e che Vullo opportunamente segnala: “Candido…scopre che le terre sono tante, ma che a lavorarci sono rimasti in pochi, solo i vecchi poiché i figli, i giovani avevano preferito emigrare…”.
“Di terra e di pane” è un libro prezioso. Leggendo Vullo che scrive dell’amore che Sciascia provava per i frutti della sua terra, e la “cultura” che questi frutti costituiscono e rappresentano, viene in mente l’impegno di un altro artista: quel Tonino Guerra che dopo aver mietuto successi ed allori come sceneggiatore dei più importanti registi italiani e del mondo, si ritira nella sua Valmarecchia, a Pennabilli; e lì, in quella specie di Racalmuto romagnola alterna le sue poesie in dialetto a racconti veri che sembrano favole (a raccontare favole che sembrano vere sono capaci tutti); e soprattutto si dedica al recupero e alla conservazione di quello che rischia di andare perduto, come semi e colture raccolte ne “L’orto dei frutti perduti”, una sorta di museo dei sapori, quelle piante e quei frutti che nessuno coltiva e produce più: il sorbo, la mela cotogna, la ciliegia cuccarina…
Vullo, attraverso Sciascia e con Sciascia, racconta delle eccellenze della sua amata Sicilia e formula un augurio che facciamo nostro: che il suo lavoro possa “in qualche modo, inserirsi in quella opera molto sciasciana di “dare memoria al futuro”, di contribuire a farci ritrovare il senso del tempo e del suo procedere, farci riscoprire e rivalutare le forti e antiche radici del mondo contadino, il lavoro dell’uomo nei campi e i frutti della terra”. Poi, per chi vuole e può, la seconda parte del libro è costituita da “ricette sciasciane”: da leggere, e soprattutto da gustare.
Valter Vecellio