Laura Parola - Sciascia e Verga: due prospettive sulla realtà siciliana

Il saggio di Andrea Verri Per la giustizia in terra. Leonardo Sciascia, Manzoni, Belli e Verga (prefazione di Ricciarda Ricorda, Art Print, Mira Venezia 2017, pp. 260) è stato presentato lo scorso 18 ottobre all’Università di Milano con due interventi, il primo di Hermann Grosser – pubblicato nella stanza a lato – e il secondo di Laura Parola, che si pubblica di seguito.

 

Sciascia e Verga: due prospettive sulla realtà siciliana
di

Laura Parola

Nel quinto capitolo del suo saggio, Verri si occupa del rapporto tra Sciascia e Verga, un rapporto, complesso e ricco di contraddizioni, che viene indagato soprattutto secondo la prospettiva dei due autori nei confronti della realtà storica (e socio-culturale) della Sicilia. In particolare sono principalmente tre i i temi che emergono: quello della denuncia di un sistema sociale e culturale fondato su una gerarchia di poteri che usano la corruzione per affermarsi e che costituiscono il terreno fertile per la diffusione della mentalità mafiosa; quello del giudizio sul Risorgimento, considerato dalla prospettiva isolana anziché da quella ufficiale e nazionale e quello dell’attenzione alle ingenti emigrazioni verso l’America che caratterizzarono la storia della Sicilia tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

Sciascia ammira Verga per altrettanti motivi per i quali lo rifiuta: è siciliano, è una grande maestro di scrittura, è uno scrittore che bada alla sostanza profonda delle cose e dalle cose, dal racconto della realtà, trae il proprio stile narrativo. D’altra parte Verga «è un reazionario», un borghese conservatore che talvolta mistifica la storia (nella novella Libertà, ad esempio) per non dispiacere troppo al potere costituito.

Nonostante la marcata distanza ideologica, Sciascia ammira in Verga un tratto che gli è proprio, come narratore, ovviamente, ma anche come moralista, nel senso più alto del termine, cioè di un uomo che afferma i valori etici, primo fra tutti la giustizia. Verri fa emergere questa simpatia e concordanza di prospettive, e di tecniche, attraverso il giudizio che Sciascia formula (nell’antologia Narratori di Sicilia, curata insieme a Salvatore Guglielmino nel 1967 e poi nel saggio Verga e la memoria del 1976) su La chiave d’oro, una novella pubblicata da Verga in Drammi intimi nel 1884, ma che poi l’autore rifiutò di ripubblicare. Non solo, Verri poi confronta tale novella verghiana con la novella Reversibilità (pubblicata da Sciascia nella raccolta Il mare colore del vino nel 1973), che viene definita come una sorta di riscrittura del racconto di Verga.

In quali aspetti della scrittura verghiana Sciascia si riconosce, tanto da “riscrivere” la novella di Verga che afferma di preferire sopra tutte?

Soprattutto, nel far emergere, attraverso brevi annotazioni sui gesti dei personaggi e attraverso i dialoghi allusivi e reticenti, quindi attraverso il non detto, la cruda realtà dei rapporti di classe e di potere: tra i cosiddetti e antifrastici «galantuomini» – il canonico, il possidente terriero, il giudice, il Procuratore Generale – e le loro vittime, la «gentuzza», povera gente di campagna cui nessun diritto, nemmeno quello di vivere, viene riconosciuto. E’ questo, fa capire Sciascia commentando Verga, il sostrato culturale (e più ampiamente antropologico e linguistico) che ha generato e poi caratterizzato la mafia.

Certo, Sciascia ha sempre rifiutato, specie dopo la grande eco suscitata dalla pubblicazione de Il giorno della civetta nel 1961, l’appellativo di “mafiologo”, da cui si difendeva affermando di essere «semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone» (in un articolo del 19 settembre 1982 su “Il Corriere della Sera” ). E infatti raramente Sciascia nomina direttamente la mafia (su cui pure nel 1973 scrive un saggio, quasi dimenticato , La storia della mafia, pubblicato sulla rivista “Storia illustrata” e ora ripubblicato da Barion, Milano, nel 2013) e non lo fa nella novella citata, così come non ne fa il nome Verga ne La chiave d’oro. Ma la connivenza tra i rappresentanti dei poteri forti - quello economico dei possidenti e quello giudiziario della magistratura, personaggi corrotti e violenti, che nutrono un malinteso senso dell’onore e del dovere e che tra loro comunicano in silenzio, attraverso gesti, occhiate, allusioni, ebbene questa connivenza è il fondamento del sistema mafioso, della “mafia-civetta”, rapace notturno (è un caso che le due novelle siano ambientate di notte?), dalle origini del suo sviluppo nei primi anni postunitari fino ai giorni nostri, quando insieme alla “palma”, come diceva Sciascia negli anni Settanta, la rete delle connivenze criminali si è ben radicata nelle regioni settentrionali. Così la civetta non solo è uscita allo scoperto, ma è diventata avvoltoio (l’amarissima ironia è ancora di Sciascia).

A proposito del giudizio sul Risorgimento, altro tema sul quale Sciascia si confronta con Verga, Verri ricorda che Sciascia, in una lettera del 1966 alla studiosa Franca Trentin, accusa il Verga della novella Libertà, un Verga «monarchico e crispino», di «radicale omertà», per aver mistificato la realtà storica allo scopo di «non danneggiare il racconto ufficiale dell’Unità d’Italia». E in effetti fu proprio così, come già aveva affermato lo storico Benedetto Radice nella sua monografia Nino Bixio a Bronte, del 1910. Almeno due sono gli interventi del narratore catanese a modificare i fatti di Bronte: l’aver taciuto l’uccisione dell’avvocato Lombardo, uomo colto e illuminato, la cui presenza avrebbe incrinato la compattezza della massa di contadini inferociti; e l’aver sostituito una meno imbarazzante deformità fisica (l’essere un “nano”) alla deformità mentale di una delle vittime della esecuzione sommaria voluta da Bixio: Nunzio Ciraldo Fraiunco era il “pazzo” del paese, solo colpevole di aggirarsi per il villaggio suonando una trombetta. Ma anche lui venne fucilato, senza giusto processo, come colpevole della rivolta.

Invece Sciascia, quando parla di Risorgimento (oltre che a proposito della novella Libertà, anche nella novella Il Quarantotto, nel saggio I pugnalatori e, più o meno direttamente, in vari saggi critici) lo fa assumendo un punto di vista eccentrico, quello siciliano, e dal basso: lo scopo di Sciascia era quello di denunciare, attraverso questa rilettura storica, le responsabilità – di classe, quella dei galantuomini, e individuali – che portarono al sostanziale fallimento del progetto risorgimentale in Sicilia, nella quale invece andò di fatto radicalizzandosi l’antico sistema baronale, mentre parallelamente si diffuse il nicodemismo E’ recentemente uscito (2017) il saggio dello storico Salvatore Costanza (Si agitano bandiere. Leonardo Sciascia e il Risorgimento, Edizioni Torri del Vento) che passa al vaglio della documentazione storica gli scritti narrativi e saggistici di Sciascia : è interessante notare – e qui il punto di vista di Costanza si discosta da quello di Verri – che la conclusione cui Costanza perviene nei confronti di Sciascia narratore della storia e della società è affine a quella che Verri individua nell’atteggiamento critico di Sciascia nei confronti di Verga. Vale a dire che entrambi (Verga da parte di Sciascia, secondo Verri, e Sciascia stesso secondo Costanza) sono accusati di nutrire, quando parlano del popolo siciliano, un pessimismo senza speranza di riscatto: un fatale destino di sconfitta che induce alla rassegnazione, secondo il Verga di Sciascia (Sciascia gli attribuisce addirittura una «fedeltà all’immobilità», «una specie di superstizione tomistica»); un’ ininterrotta serie di fallimenti e di tradimenti subiti, secondo lo Sciascia di Costanza.

La differenza tra le weltanshauung dei due autori siciliani comunque c’è e Verri la individua nel ruolo che Sciascia assegna all’invenzione, che «creerebbe lo spazio per affermare la positività nella storia che continuamente la nega» (pag. 222). Una tesi, questa, ribadita da Verri che la illustra ampiamente alla fine del secondo capitolo, a proposito del rapporto tra realtà e invenzione negli scritti manzoniani. Per quanto riguarda anche il fallimento, sul piano della storia, che Sciascia riconosce al Risorgimento in Sicilia e il suo riscatto sul piano dell’invenzione, credo che Verri pensi, ad esempio, alle parole che Sciascia fa pronunciare a un immaginario giovane Ippolito Nievo, il quale, nella novella Il Quarantotto, dice a Garibaldi: «credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono»; insomma Nievo/Sciascia crede in coloro che, pur non nutrendo molte speranze, sono – dice più avanti – «il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori» .

E’ quindi in questa silenziosa e fragile speranza che Sciascia confida di trovare il presupposto dell’azione, di quella azione nella storia che lo stesso Sciascia assegna alla propria scrittura, nonché al proprio impegno politico attivo, prima nel partito comunista, poi in quello radicale che lo portò ad assumere la carica di deputato e di membro della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di via Fani.

Per venire, infine, al terzo argomento, quello dell’emigrazione (oltreoceano, soprattutto, ma anche in Belgio e in Germania) attorno a cui verte il confronto tra Sciascia e Verga, Verri si sofferma in particolar modo sull’analisi del racconto Il lungo viaggio, ma non trascura altri scritti sciasciani che ne parlano, più o meno direttamente (Le parrocchie di Regalpetra,i racconti La zia d’America, L’esame). Il giudizio di Sciascia è nettamente antiverghiano, dimostra Verri: Verga, come del resto quasi tutta la grande letteratura italiana, non affronta mai la questione, nonostante le migliaia di emigranti, moltissimi i siciliani, proprio nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. E, se lo fa, e marginalmente, ne fa scaturire un giudizio negativo: il giovane ‘Ntoni e Lia scontano duramente il prezzo dell’emigrazione, presentata come una colpa, un peccato contro la religione della famiglia. Per Sciascia, invece, che ne parla anche nell’intervista a Marcelle Padovani valutandone gli aspetti contraddittori - anche quindi positivi - sul piano socio-economico, l’emigrazione rispondeva all’aspirazione di trovare, almeno, un mondo più giusto da parte di migliaia di siciliani, che, invece di rassegnarsi fatalisticamente, volevano cambiare vita. Certo, l’emigrazione fu un dramma collettivo ed epocale e non cancellò i tratti più profondi della cultura siciliana, affetta da quella “sicilitudine” fatta di malinconia e rassegnazione e fortemente legata alle proprie radici, famigliari e paesane. Tuttavia, almeno, mostrò la forte volontà e la determinazione di cambiare la propria vita.

Sul piano del racconto, per altro, i personaggi - quelli di Sciascia, non meno che quelli di Verga - sono dei vinti dalla storia (i protagonisti de Il lungo viaggio vengono truffati dai traghettatori e non riusciranno mai ad arrivare in America), ma ciò che li distingue è proprio la «determinazione a cambiare una volta per tutte le condizioni di ingiustizia nelle quali vivono essi e vivevano i loro antenati» (pag.245). E’ in questo modo che, come afferma Natale Tedesco (citato da Verri) «la sconfitta del passato assume un valore attivo nella situazione storica contemporanea».

Perché, come emerge da tutta la sua opera di scrittura e di vita, è proprio il presente e quanto si può fare hic et nunc per combattere l’ingiustizia ciò che interessa soprattutto a Leonardo Sciascia.

Laura Parola