L’università a Bologna, in quegli anni anche cupi, da lupi (“Radio Alice”, l’assalto a un’armeria e la morte di Lorusso, i carri armati nel centro di Bologna…), è stata una bella e formativa stagione. La libreria antiquaria di Roversi, la mitica “Palmaverde” era un luogo magico; e fantastici quei cataloghi, che compulsavi di avidità e maledicendoti: perché per un libro che riuscivi ad accaparrarti ce n’erano dieci altri che lasciavi con la morte nel cuore; e la gioia quando arrivava finalmente il pacchetto, confezionato in modo impeccabile: perché Roversi aveva una maestria e una perizia tutta sua nel confezionare i pacchetti con dentro i libri, ed erano semplicemente perfetti…
Ci sono persone che quando se ne vanno, lasciano comunque un vuoto, e ti scopri commosso: persone come Leonardo Sciascia o Gesualdo Bufalino, Tonino Guerra, Alberto Sughi, Andrea Zanzotto…e ora Roberto Roversi.
In questa stagione – non solo politica – scostumata e volgare, Roversi era, per il suo rigore e la sua coerenza, un esempio di quell’Italia di minoranza che non “molla”, non cede: irriducibile, mite e paziente, ma anche determinata e gonfia di quello sdegno e pudore che ti fa dire: “Perché?”, e soggiungere, come lo scrivano di Melville: “Preferirei di no”. ; quell’Italia che continua a tenere accesa una piccola, preziosa, fiammella. Che poco conta, nei momenti di grande luce, ma è importantissima quando il buio è assoluto. Dedicati all’amico Tonino Guerra, Roversi ha scritto alcuni versi: “…Inventore di ombre, di soli, di erbe/distilla alchermes stregato/per vincere il dolore/e rendere meno faticosa, e più degna/la speranza”. Potrebbero essere benissimo versi di Guerra per Roversi.
Anni fa, a cura dell’Associazione degli “Amici di Leonardo Sciascia”, è stata pubblicata una cartella di cento esemplari, “Il Clarino”, con un’acquaforte di Nunzio Gulino e un testo di Roversi. Parla di Sciascia, ma anche di sè: “…La prima volta mi chiese se la signora Roversi, moglie a Orsi, capostazione arrivato a Racalmuto, tempo prima, da Bologna, era per caso, mia parente. Sì, era sorella di mio padre. Ne trasse un sorridente auspicio per il nostro incontro e per una buona amicizia. Poi nel 1954 ebbe la buona attenzione e la grande cortesia di accogliere nella serie di libretti di poesia che si apprestava ad avviare, una mia raccoltine che uscì affiancata a Paolini e Romanò…”. E ancora: “Già allora (e anche adesso, senza credere Sciascia un santo di pazienza), già allora pensavo che non fosse capace a contenere ira o violenza o sguaiataggine di sorta e che anche le sue parole più dure non fossero tali da essere destinate a trafiggere una persona intera, magari solo per un momento…”. Par di vederli, Roversi e Sciascia, in libreria o a passeggio sotto i portici per raggiungere un ristorante, che parlano di poesia e della vita, di libri da fare e da trovare, “i primi tempi era cauto – non con me né per qualche sospetto o timidezza: ma perché – credo – fosse quello il suo modo, un po’ contratto, di perlustrare il territorio in cui si muoveva…”.
Le fantastiche amicizie, appunto; che aiutano a sopportare questo tempo di monti furenti che sembrano non passare mai.