Cavalli e locomotive, ovvero oscurità di mente e fantasia

Il 3 novembre 1880 per la stazione di Racalmuto transitò il primo treno. Si può immaginare che allo spettacolo fosse presente, se non tutta, gran parte della popolazione. Tra la folla c’era anche un certo don Camillo Picataggi, un “vecchio galantuomo” che non si era mai allontanato dal paese e pensava che il vapore potesse al massimo muovere il coperchio di una “pentola che bolle”: impossibile, quindi, che potesse muovere “una teoria di carri grandi come case”. I compaesani pensavano che, posto di fronte all’evidenza, il vecchio avrebbe cambiato idea. Non fu così: “… Don Camillo, dopo un momento di perplessità, pronunciò quella frase, rimasta nel parlare popolare a significare gratuita e testarda diffidenza, in genere; oscurità di mente nei riguardi del progresso, in particolare”.

   Quella frase – “Nun mi futtinu: dintra ci su’ li cavaddri” – è diventata il titolo di una delle ‘voci’ di Occhio di capra (Einaudi, Torino, 1984, ora in edizione Adelphi), in cui Leonardo Sciascia raccolse decine di modi di dire del suo paese, che rappresentavano la sapienza popolare tramandata per generazioni. E proprio per conservarne la memoria, Sciascia cominciò a prenderne nota, fino a farne un libro: che, forse non a caso, è l’unica sua opera preceduta da una dedica: “Ai miei nipoti / Fabrizio, Angela, Michele e Vito: / perché ricordino”. (Occhio di capra è la nuova e definitiva edizione, molto ampliata e preceduta da una importante “Notizia” dell’autore, del volumetto intitolato Kermesse, pubblicato da Sellerio nel febbraio 1982, numero 39 della collana “La memoria”. È interessante notare che, in quello stesso mese, con il numero 40 della stessa collana, fu pubblicato Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino, libro per molti versi simile a Kermesse. Ed è qui il caso di rammentare che “La memoria” – ideata da Sciascia e premiata da grande e meritata fortuna – ha da poco felicemente superato il numero 1000.)
   Dunque: “Non mi fottono (non me la fanno): dentro ci sono i cavalli”, sentenziò don Camillo Picataggi, uomo testardo e diffidente, davanti allo spettacolo di una locomotiva sbuffante con agganciate alcune vetture. E si può fantasticare che, se avesse mai visto l’immagine di un tram a cavalli, avrebbe spiegato ai compaesani che quella era la prova che le cose stavano come diceva lui: nel tram i cavalli erano in bella vista, nella locomotiva erano ben nascosti – “dintra”, appunto.
   Eppure… L’incredibile fenomeno che il “vecchio galantuomo” racalmutese immaginava con la forza della sua “gratuita e testarda diffidenza” – i cavalli nascosti nel corpo della locomotiva – un ben altro uomo avrebbe descritto, circa sessant’anni dopo, con poetica e straordinaria visionarietà:

Arriviamo a Verona sulla groppa del cavallo di Romeo, e poiché oltre Verona il cavallo al fiero Montecchio non serve più, lo inforchiamo da soli questa volta e proseguiamo alla volta di Milano.
Ma il cavallo di Romeo è imprevedibilmente focoso. I suoi occhi cammin facendo si accendono e buttano potenti fasci di luce. Stantuffi gli escono dalle coste, le zampe gli s’incurvano a ruota, ed è sbuffando, fischiando e gettando vapore dai fianchi, che noi entriamo trionfalmente nella stazione di Milano.

   Così Alberto Savinio – autore amatissimo da Sciascia, che negli anni ’70 ne favorì la riscoperta – conclude il terzo capitolo, intitolato “Il cavallo di Romeo”, del suo splendido Ascolto il tuo cuore, città (Adelphi, Milano, 1984), pubblicato per la prima volta nel 1944.
   All’inizio di Palermo felicissima, uno dei saggi raccolti in Cruciverba, Sciascia scrive che la Milano di cui Savinio aveva tracciato il ritratto in Ascolto il tuo cuore, città “era quella che dagli anni di Stendhal arrivava ai suoi: una città stendhaliana nonostante i grattacieli, le invadenti sigle commerciali, la Fiera Campionaria…”. E in effetti il libro di Savinio è un ritratto di Milano com’era prima dei bombardamenti che la colpirono nell’estate del 1943: “È il ritratto di Milano ‘di prima’ – scrive Savinio. – È Milano quale nessuno rivedrà mai più”. Secondo Sciascia, Alberto Savinio aveva appunto saputo “ascoltare il cuore di questa città”; cosa che, purtroppo, nessuno scrittore era invece riuscito a fare per la Palermo “di prima del ’14 e fino ai bombardamenti del ‘43”.
   In un certo senso, Ascolto il tuo cuore, città può essere definito una dichiarazione d’amore a Milano; come Occhio di capra, su un piano molto diverso, può essere definito una dichiarazione d’amore a Racalmuto: “Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto, in provincia di Agrigento”. Due libri da leggere, e soprattutto da rileggere, quindi, Ascolto il tuo cuore, città e Occhio di capra.
   Quanto a don Camillo Picataggi, cosa si può dire di lui, se non che è stato alquanto fortunato? Un suo compaesano, nato molti anni dopo di lui e divenuto un grande scrittore, lo ha strappato all’oblio cui era destinato e – nei limiti dell’immortalità letteraria – ne ha immortalato il nome, sia pure rendendolo un ‘carattere’ (ma non nel senso di una delle tre categorie dell’interpretazione teatrale di cui si legge nel saggio Il volto sulla maschera, anche questo in Cruciverba): quello dell’uomo di “gratuita e testarda diffidenza”, che si rifiuta di prendere atto della realtà. Non si tratta di un elogio, certo, ma di una certificazione del passaggio sulla terra sì. Tutto sommato, forse, meglio del nulla.

Euclide Lo Giudice