Insetti e briganti

Qualche giorno fa ho estratto dallo scaffale un’antologia di testi di viaggiatori francesi sull’Italia, intitolata Italies. Anthologie des voyageurs français aux XVIIIe et XIXe siècles e pubblicata nel 1988, a cura di Yves Hersant, nella collana Bouquins dell’editore Robert Laffont.

L’opera deve aver avuto un certo successo, se nel 1996 era già arrivata alla quatrième réimpression: quella che ho io. (In Italia, molti editori avrebbero dichiarato che si trattava della quinta edizione: ma questo è un altro discorso).
   Tra i testi riprodotti nel volume, ci sono dei lunghi estratti da
La vie errante di Guy de Maupassant, apparso nel 1890, tra cui la parte dedicata alla Sicilia. E proprio in quelle pagine mi sono imbattuto nella narrazione di una vicenda che Maupassant assicura autentica e che probabilmente – per vari motivi che non ritengo necessario illustrare – sarebbe piaciuta a Leonardo Sciascia.
  
Un entomologo palermitano – racconta Maupassant – aveva scoperto un coleottero che fu a lungo confuso con la Polyphilla Olivieri. Uno studioso tedesco, di nome Kraatz, scoprì che si trattava invece di una specie diversa, e scrisse a un suo amico siciliano, il signor di Stephani, per ottenerne qualche esemplare. Il di Stephani si rivolse perciò a un suo conoscente, Giuseppe Miraglia, per chiedergli di catturare per lui alcuni esemplari degli insetti in questione, che però sembravano essere scomparsi. Fu allora che il signor Lombardo Martorana, di Trapani, informò il di Stephani di aver appena catturato più di cinquanta polyphilla. Di Stephani si affrettò ad informarne Miraglia con una lettera dal tono scherzoso: “Mio caro Giuseppe, la Polyphilla Olivieri, avendo appreso delle tue intenzioni omicide, ha preso un’altra strada ed è andata a rifugiarsi sulla costa di Trapani, dove il mio amico Lombardo ne ha già catturati più di cinquanta individui”. Dopo averla letta, Giuseppe Miraglia gettò la lettera dell’amico nel cestino. Il foglio di carta finì quindi in una discarica, dove fu raccolto da un contadino il quale, pensando che prima o poi potesse essergli utile, lo prese e se lo mise in tasca.
   A questo punto la storia prende una piega tragicomica – “d’une invraisemblance épique”, scrive Maupassant. Alcuni mesi dopo, per motivi sui quali lo scrittore non si sofferma, il contadino viene convocato in questura. Qui, disgraziatamente per lui, dalla tasca gli cade sul pavimento la lettera del signor di Stephani. Il foglio spiegazzato viene subito raccolto da un gendarme, che lo consegna al giudice. Questi è attratto da alcuni passaggi della lettera: “intenzioni omicide… presa un’altra strada… è andata a rifugiarsi… Lombardo… catturati…”. Poiché nei dintorni di Trapani è molto attivo un brigante di nome Lombardo, il contadino viene arrestato, interrogato, posto in isolamento. Non confessa nulla. Viene quindi trattenuto e viene avviata un’inchiesta. I magistrati, con l’obiettivo di raccogliere informazioni, pubblicano la lettera sospetta. A causa della grafia non molto chiara, tuttavia, hanno letto Petronilla Olivieri invece di Polyphilla Olivieri, e quindi gli entomologi, che sarebbero i soli in grado di chiarire l’equivoco, non si curano della lettera. Successivamente viene decifrata la firma del signor di Stephani, il quale è convocato in tribunale. Le sue spiegazioni però non vengono accolte. Finalmente il signor Miraglia, convocato a sua volta, riesce a chiarire la vicenda.
   Nel frattempo, il contadino era rimasto tre mesi in prigione. “Uno degli ultimi briganti siciliani – conclude Maupassant – fu dunque, in verità, una specie di maggiolino conosciuta dagli scienziati sotto il nome di Polyphilla Ragusa.”
  
La vicenda sarebbe stata grottescamente ridicola, se non fosse stata drammatica per il contadino che ne rimase vittima. Non so se Sciascia abbia letto il testo di Maupassant, ma sono propenso a crederlo: quanto meno per il suo grande amore alle cose di Sicilia, che lo spingeva a ricercare e studiare testi e documenti che riguardassero l’isola – e non a caso si intitola Delle cose di Sicilia. Testi inediti o rari una bellissima antologia in quattro volumi da lui ideata e curata per Sellerio: che non contiene comunque alcun testo di Maupassant. Pubblicata originariamente tra il 1982 e il 1986, nella collana Biblioteca siciliana di storia e letteratura, l’antologia è stata poi ripubblicata nella collana L’isola.
   In ogni caso, la disavventura del contadino siciliano, colpevole di portarsi in tasca un foglio di carta stropicciata, trova come un’eco nell’articolo sciasciano dedicato al caso Tortora e pubblicato sul
Corriere della Sera del 14 ottobre 1983: in cui ad un certo punto si legge che “duecento persone sono state arrestate per omonimia (arrivando a trattenerle in carcere anche per tre mesi, come un povero marittimo di Eboli: e speriamo non ce ne siano in carcere altri)…”.
   Il brano di Maupassant è tuttavia interessante anche per un altro motivo. Subito prima di iniziare a narrare l’episodio legato alla Polyphilla Olivieri, infatti, lo scrittore francese scrive testualmente: “Les Siciliens semblent avoir pris plaisir à grossir et à multiplier les histoires de bandits pour effrayer les étrangers; et, encore aujourd’hui, on hésite à entrer dans cette île aussi tranquille que la Suisse”. E subito torna in mente la visita del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo a Donnafugata, nel novembre 1860, per offrire il laticlavio a Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina. Nella memoria di gran parte dei lettori de
Il Gattopardo resta, soprattutto se non esclusivamente, la conversazione tra i due gentiluomini, nello studio del padrone di casa. Molti ricorderanno anche la conclusione della visita del funzionario piemontese, che all’alba del giorno successivo viene accompagnato dal principe alla stazione di posta. E, trovandosi solo sulla vettura, che lo riporterà a Girgenti, con un dito bagnato di saliva pulisce il finestrino quel tanto che gli basta per dare un’occhiata all’esterno: “Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile”.
  
Durante il suo brevissimo soggiorno a Donnafugata, il cavaliere Chevalley è ospite della famiglia Corbera. Non soltanto viene alloggiato e nutrito con principesca signorilità, ma viene anche portato a fare un giro per il paese, dal sicilianissimo Tancredi e dall’amico lombardo di questi, Carlo Cavriaghi. E quando il gentiluomo piemontese comincia “a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica”, ciò viene “notato da Tancredi che venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempre autentiche”. E si lancia quindi a raccontare del rapimento del figlio del barone Mùtolo, restituito “A rate, dico bene, a rate; pezzo per pezzo…”; racconto cui fa seguire la previsione che, nel giro di un anno, qualcuno dei signori che Chevalley vede seduti davanti al Circolo dei Civili sarà lasciato, stecchito da una fucilata, sulla sua poltroncina; per finire con il parroco di Santa Ninfa, ucciso in chiesa cinque anni prima: “Che orrore! una fucilata in chiesa!” “Ma che fucilata, Chevalley! siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della Comunione; è più discreto, più liturgico vorrei dire…”.
   Forse Maupassant era un po’ troppo ottimista, nel giudicare la Sicilia “aussi tranquille que la Suisse”; ma di sicuro aveva visto giusto, quando sosteneva che “Les Siciliens semblent avoir pris plaisir à grossir et à multiplier les histoires de bandits”. Come appunto fa Tancredi Falconeri, per terrorizzare il funzionario di prefettura Aimone Chevalley di Monterzuolo: al quale, nel suo lontanissimo Piemonte, probabilmente accadeva talvolta di esprimersi in francese. Cosa che capitava del resto anche al conte Camillo Benso di Cavour, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna, ormai prossimo a diventare il Regno d’Italia.

Euclide Lo Giudice