Rossana Cavaliere - L'ombra di una monaca

«Un tipo!». Così viene indirettamente presentata Luisa Roscio nelle prime pagine del romanzo A ciascuno il suo. A etichettarla in tal modo è Lucia Spanò, l’altra vedova in cui ci si imbatte quasi subito, descritta dall’autore come la perfetta antitesi della prima: tanto virtuosa «ma brutta, poveretta, finché Dio poté arrivare …» quest’ultima, quanto perversa e generosamente dotata da madre natura Luisa, la vedova su cui si incentra tutta la storia dallo sconcertante epilogo.
Non entra in scena subito la conturbante Luisa, ma, come da copione, il suo ingresso è preparato dal narratore che, con poche ma accorte battute, crea attesa nel lettore.
E le aspettative non verranno deluse: la sua morbida bellezza mediterranea, la sua sensualità e la consapevolezza del potere esercitato sull’altro sesso la rendono una figura intrigante, che si ricoprirà a poco a poco di un velo di mistero e di morte, interpretando una sicula declinazione della dark lady, o piuttosto una vedova nera di provincia, che uccide “preventivamente” lo sventurato professor Laurana, ben prima di lasciarsi possedere, intrappolandolo nella sua ragnatela di  ambiguità.
Non è certo l’unica donna attraente dell’opera di Sciascia: ne compaiono altre, non solo frutto dell’inventiva dell’autore, ma anche realmente esistite, come la signora Oggioni Tiepolo, raffigurata dall’autore con insolita dovizia di particolari, splendida protagonista di 1912+1, che, per salvare la propria reputazione, uccide l’amante; compaiono anche  altre mogli che si adoperano non poco per procurare la morte o l’imprigionamento dei rispettivi coniugi, come Rosalia de Il quarantotto, o la signora Crès de Il contesto, ma a nessuna di loro è toccata in sorte la notorietà di Luisa, offerta al grande pubblico anche dalla versione cinematografica di Elio Petri, che ne sviluppa i risvolti contrastivi di Eros e Thanatos, attraverso la “maschera tragica” di Irene Papas, forse privandola di quella connotazione di spregiudicata  leggerezza che la rende unica.
Cominciamo dall’indubbio talento recitativo di Luisa, dal quale – ahi lui! – il professore si lascia irretire. Luisa, infatti, interpreta, a volte in modo istrionico, altre più misurato, ruoli diversi, a cominciare da quello della moglie devota, che solo ogni tanto tradisce lo scarso apprezzamento verso il defunto consorte, quando, per esempio, ne denuncia la meticolosità, facendo capire quanto fosse stato insopportabilmente pedante. Quando, invece, gli riconosce il rispetto formale per la chiesa, i suoi riti e i suoi esponenti di prestigio appare più sincera: nella visione mistificata della religione, nell’assenza di ogni slancio etico, che fanno di lei una donna del tutto amorale, l’ossequio alla forma costituisce paradossalmente la vera essenza della religiosità.
Certamente le costa mostrare «il dolore inconsolabile della vedova», in termini di oggettivo dispendio di energie, di “sofferenza fisica”: starsene «inginocchiata per ore davanti alla tomba del marito», in attesa che qualche visita le porti « il sollievo di alzarsi»  non è uno scherzo. Ma, si sa, gli attori godono già della loro stessa performance: nel rappresentare il suo «funebre zelo», Luisa ha un  suo pubblico affezionato, e se poi questo pubblico è fatto di giovinastri che sono assai attenti all’atto del suo alzarsi, per il fatto che si scopre «il bianco della coscia sulla calza bien tirada»  –  scrive Sciascia, alludendo a Goya e ai suoi Capricci – non significa che le sue capacità teatrali vengano sminuite, anzi. Luisa, paragonata a «un’odalisca di Delacroix»,  è particolarmente addestrata all’arte del vedo-non-vedo, o, piuttosto, del mostro-non-mostro: vestale di un eros ormai obsoleto, ma all’epoca ancora di collaudato effetto, sa perfettamente  che «l’orlo della gonna nera che tira giù […] risale subito», eppure ripete il gesto di raccomodarsi, quasi ritualmente, a beneficio dei suoi fan. Compreso quello sprovveduto di Laurana.
A volte, però, la sua recitazione è meno naturale, più caricata: al lettore disincantato non sfuggono «il sospiro di sofferenza […], il gemito[…], la testa (rovesciata) all’indietro» e neppure le enfatiche esclamazioni di pathos, come quando si proclama «malaviva, sciaguratamente viva» e via con nuovi sospiri, a detergere «invisibili lacrime», o a lasciarsi andare a un ossimorico «silenzioso scoppio di pianto», che costituisce il suggello dell’artista. 
D’altronde, chi ricorda la scena del rapimento di Lucia ne I promessi sposi, avrà probabilmente memoria dei toni insolitamente melodrammatici con cui il maestro Manzoni racconta i tanti svenimenti, trasalimenti, i reiterati, assolutamente inutili, tentativi di fuga della giovanetta che provava ad aprire lo sportello della “bussola” in corsa … Ma il soggetto in questione era di tutt’altra stoffa, in verità. E gli scopi poetici altrettanto diversi, pur se l’associazione di idee non è così peregrina come potrebbe ora apparire.
È con Laurana, tuttavia, che Luisa dà il meglio di sé, sfoderando i pezzi di bravura del suo repertorio. Ed eccola portarsi «la mano sul cuore», in segno di apprensione, un misto di «stupore e ansietà» per il mistero sotteso alla morte del marito, quelle «cose incomprensibili» che la turbano e la inquietano; e, poco dopo, a incrociare le mani per «stringersi le braccia come se i brividi l’assalissero ancora», nel rievocare le parole blasfeme di quell’«uomo senza fede», inguaribile mangiapreti che è suo suocero.
Il professore vacilla, è come sdoppiato, in contraddizione con se stesso, mentre, concupiscente, si lascia inesorabilmente circuire. Ora Luisa lo lusinga, stringendogli «la mano con indugio e intenzione e un balenare di implorante intesa nello sguardo»; ora, «guardandolo negli occhi con luminosa implorazione», fa appello al suo orgoglio di maschio latino e, fingendosi fragile e indifesa creatura, votata alla verità, lo fa sdilinquire con l’accorato: «La prego, non mi nasconda niente: ho tanto bisogno di lei».
Il professore, almeno fino a un certo punto, riesce a ragionare lucidamente, tant’è che ne stigmatizza la pochezza: «Parlava con una volubilità svagata e sciocca, da far sanguinare le orecchie...». Ma poi, da quando «la rivelazione del delitto era venuta ad alimentare e complicare la sua eccitazione», ecco che il «sangue vicino a lei gli si accendeva; e più il suo giudizio si faceva affilato e spietato a coglierne lo squallore umano, a intravederne la perversità, più l’abbondante grazia del corpo, il volto in cui le labbra disegnavano broncio ed offerta, la massa dei capelli, il profumo che appena velava un afrore di letto, di sonno, suscitavano in lui un desiderio doloroso, fisicamente doloroso».
Alla débacle di Laurana fa riscontro il crescente trionfo di Luisa: con calcolata  astuzia, essa finge di rivelargli la scoperta di un diario segreto tenuto dal consorte, dalle cui parole ha dedotto, senza ombra di dubbio, che l’intrallazzatore che suo marito, prima di una morte tutt’altro che accidentale, intendeva denunciare era suo cugino Rosello (e ha l’accortezza di pronunciare la parola “cugino” accompagnandola con «una smorfia quasi di disgusto») e subito il professore ritratta mentalmente ogni considerazione negativa su di lei, anzi «in un impeto di amore e di rimorso, si chinò sulla mano di lei quasi a baciargliela. Restò poi a guardarla mentre si allontanava nella piazza piena di palme e d’azzurro: stupenda, innocente, coraggiosa creatura».
Pur con residuo rammarico, bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’ha quella malalingua di don Luigi, se, anziché pronunciare una parola amichevole o pietosa per il professore, miseramente finito «sotto una grave mora di rosticci», lo marchia per sempre, a conclusione del romanzo, con la sferzante, indimenticabile battuta: «Era un cretino»!
Perché, in realtà, solo un ingenuo come Laurana poteva cadere nella trappola mortale di Luisa. Solo lui poteva essere la vittima annunciata, come si intuisce dal minuzioso racconto della vertigine dei sensi, troppo a lungo repressi, che Sciascia fa a proposito del suo investigatore dimezzato, tanto più attratto dalla donna in quanto essa racchiude in sé la duplice forma della tentazione: «il male, insomma, nel suo incarnarsi, nel suo farsi oscuramente e splendidamente sesso».
Per gli altri uomini del romanzo, come si evince dai sapidi squarci sul gallismo, di matrice brancatiana fortemente intrisa di sciasciana ironia, Luisa è solo un oggetto del desiderio: nelle morbosità di quel «vecchio dannato» del suocero; nell’«interludio erotico» al circolo dei notabili, quando, scivolata la conversazione sulla procace vedova e «sui papabili […]che avrebbero potuto aspirare al letto e ai beni » della stessa, si assisterà a un «vorticoso declino del rispetto per il suo corpo  nudo, per certe parti del suo corpo», che il narratore, fine cultore d’arte nelle sue varie forme, evita con eleganza di menzionare, ma sottintende, ricordando «prospettive simili a quelle che il fotografo Brandt sa ossessivamente svolgere»; perfino in casa dell’arciprete, quando, poco dopo l’annuncio ufficiale del “fidanzamento” di Luisa con il cugino Rosello,  l’8 settembre dell’anno successivo agli omicidi, l’attempato colonnello Salvaggio, ammiratore dei più calienti (sia pure solo virtualmente parlando) ammetterà che, pur di starle vicino, farebbe «cose da pazzi».
Cos’ha mai di così speciale questa seduttrice del profondo sud, da agitare i sonni – e le veglie – del povero Laurana, da stimolare la libidine dei maschi d’ogni età ed estrazione socio-culturale, attraversando i sogni erotici tanto di giovinastri impudenti quanto di lascivi anziani?
Luisa non provoca mai sfrontatamente: i segnali che lancia all’altro sesso sono subliminali, dal momento che perfino il suo sorriso, forse appena ammiccante, viene caricato di significato dal colonnello, pronto a confessare che «Quando sorride è come se si spogliasse; mi fa un effetto…»;  non esibisce la sua bellezza, ma gioca a stuzzicare con un gesto simbolico: tira giù l’orlo della gonna «che risale subito» per alludere a un’offerta - ritrattazione - nuova offerta di sé. Luisa non sembra possedere un’intelligenza calamitante eppure tutta la vicenda ruota intorno a lei e alla sua capacità di mentire senza tradirsi, fin da ragazza, da quando, cioè, era iniziata la tresca col cugino, in casa dello zio arciprete: a poco a poco ha affinato la sua abilità nell’occultare la verità, costretta a nascondere non solo la relazione adulterina, una volta sposata all’incauto dottor Roscio, ma anche l’omicidio del marito prima e del professore poi.  E non la scagiona di certo il non essere l’esecutrice materiale né la mente dei due delitti (il cugino-amante appare assai più volpino): è lei a mandare a morte il consorte prima e il professore poi, e che sia strettamente legata alla morte il narratore ce lo suggerisce anche con la scena semiseria ambientata al cimitero, dove Luisa fa «gli onori di casa» a chi va a visitarla.
 Dov’è che Sciascia ha seminato indizi per orientare il lettore a intuire il torbido di questo personaggio altamente ambiguo, a cogliere tratti, sfumature di una donna inafferrabile, ruspante parodia della femme fatale? Nel ritratto troveremo la chiave di lettura per provare a decifrare l’enigmatica  Luisa, per rintracciare il solenne ipotesto con cui Sciascia, al suo solito, ha instaurato il rapporto ludico di rimandi, tessuto la sua trama di accostamenti dissacranti.
Un ritratto in bianco e nero, un’ardita rivisitazione predisposta già con la ricerca dell’articolo su Manzoni, da parte di Laurana che si avvale di un pretesto per controllare le copie dell’Osservatore Romano, presso i due soli preti che in paese sono abbonati alla rivista. «Bella donna (pensò Laurana) e il nero le stava a meraviglia. Bel corpo: pieno, slanciato, con un che di indolente, di abbandonato, di disteso, anche quando più si irrigidiva». E Manzoni, invece: «Faceva a prima vista un’impressione di bellezza […] La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento». Di nuovo Sciascia: «E il volto pieno, ma di una pienezza non di donna che ha già superato il sesto lustro, d’adolescente piuttosto, splendeva degli occhi castani, quasi dorati, e del lampo dei denti perfetti tra le labbra grosse». Manzoni: «Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni […]. Un velo nero, sospeso e tirato orizzontalmente sulla testa […]».
Non si tratta solo di contenuti, date le evidenti divergenze, ma di andamento del periodo, di eleganza del dettato, di indubbi richiami a Manzoni, «lupus in fabula» – come dice il parroco di Sant’Anna riferendosi al grande scrittore milanese – e a Gertrude in particolare. Gli occhi della monaca sono neri, le sue labbra appena tinte d’un roseo sbiadito e ha solo venticinque anni, mentre gli occhi di Luisa brillano di un caldo castano dorato, le labbra appaiono carnose e ha superato la trentina; entrambe, tuttavia, sono alte e ben formate, entrambe mostrano un qualche abbandono delle membra, per entrambe quasi ossessivo si svolge il contrasto bianco-nero: l’abito monacale e la benda di lino, la pelle chiarissima e gli occhi e i capelli  nerissimi per Gertrude; la veste del lutto e la carnagione marmorea, il lampo dei denti bianchissimi e la «scura massa dei capelli» per Luisa.
E con il bianco della pelle e il nero del lutto Sciascia crea l’immagine ricorrente, che ritorna diversamente declinata, di Luisa che «elegantemente ingramagliata» scopre «il bianco della coscia», che «vestita di nero è più bella» agli occhi innocenti della sua bambina e a quelli assai meno innocenti di Laurana cui «era apparsa particolarmente bella, particolarmente desiderabile nelle vesti del lutto», quando l’aveva  contemplata «in quel salottino» con le «imposte socchiuse, la lampada accesa, gli specchi velati di nero».
Luisa è bella come una dea, ora Persefone, il cui mito è legato alla vita che rinasce e alla morte irreversibile; ora Nike di Samotracia, che, col «busto erompente», sovrasta Laurana, inginocchiato nell’inutile ricerca dei compromettenti documenti del defunto in casa di lei; ora Giunone, in virtù delle «belle (e bianche) braccia nude fino al folto ciuffo delle ascelle». Un’impertinenza in pi& grave; questo ciuffo scuro che fuoriesce dalla nicchia ascellare, irriverente derivazione della «ciocchettina di neri capelli» che fuoriusciva dalla benda monacale? In uno scrittore che si diverte a studiare le regole del giallo per il puro gusto di sovvertirle, di trasgredirle, è un'ipotesi molto probabile.
Certo è che il ritratto di Luisa è costruito sulla netta contrapposizione dei colori assoluti, perfino nel dettaglio del fazzoletto, bianco, rigorosamente listato di nero; certo è che Luisa riecheggia Gertrude, anche quando viene sinteticamente definita, come quella, «la signora».
Entrambe fanno trasparire per un attimo la loro vera natura: Gertrude scopre la sua morbosità, chiedendo a Lucia dettagli sui «pericoli» della faccenda di don Rodrigo e pronunciando il più celebre anacoluto della letteratura italiana:«[…] noi altre monache ci piace di sentir le storie per minuto»; Luisa rivela tutta la sua malizia quando si lascia sfuggire un sorriso tutt’altro che compassionevole nel giustificare il possibile tradimento del defunto consorte di Lucia Spanò, ricordando che «la povera Lucia  Spanò non è mai stata una bellezza. Siamo state compagne di collegio, era così anche allora, forse anche più brutta». Entrambe mostrano «qualcosa di studiato», che sia «la vita attillata con una certa cura secolaresca» di Gertrude, oppure che sia il gesto del risistemare l’orlo della gonna di Luisa. Entrambe sono languidamente sensuali, anche se Luisa può anche muoversi con «passi di danza». Entrambe mentono, occultano delitti e relazioni peccaminose, sono strumento di morte e hanno il coraggio di mandare al patibolo chi ha avuto l’ingenuità di credere in loro: Lucia, che uscendo dal convento per la finta commissione assegnatale da Gertrude, andrà inconsapevole all’appuntamento coi bravi dell’Innominato; Laurana che, lusingato dall’appuntamento datogli da Luisa, andrà invece dritto dritto all’incontro col sicario.
E, per finire, l’una e l’altra compaiono inscritte in un contesto reticolare: più distante e altera, dietro a una grata che la separa dal resto del mondo, Gertrude; in un «reticolo che luce e ombra giuocavano: nuda, il volto misteriosamente sommerso dalla scura massa dei capelli» Luisa, la cui visione dissolve i pensieri di Laurana «nel buio sole del desiderio», a rimarcare, elevata di potenza, l’opposizione del chiaroscuro.
A darci l’input, a ispirare la soluzione, ancora una volta è Sciascia che, già nella presentazione indiretta dell’intrigante vedova Roscio, si serve della vedova a lei antitetica per esaltare il mistero in cui è avvolta Luisa: «Quel tipo, a carico del quale la vedova Manno aveva evocato ricordi di piccole malizie da collegiali e l’ombra di una monaca che l’adorava, Laurana l’aveva ora di fronte, nella luce smorzata da pesanti tende, quale si addice a una casa in lutto». Ed è per questa preziosa “spia”, questo rapido flash, che, accanto all’ombra di una monaca viziosa, si allunga l’ombra ben più importante della monaca perversa per antonomasia, la monaca di Monza, che ha ispirato il ritratto di un’altra donna ambigua e inquietante della narrativa, una divertita e divertente variazione sul tema, doverosamente costruita in bianco e nero.