Giuseppe Bonura - Addio, grande Sciascia

La morte di Leonardo Sciascia, che aveva 68 anni, spalanca un grande vuoto nella letteratura, nella cultura e anche nella politica italiana, anzi europea. Un vuoto che non sarà facile colmare, data la eccezionalità e la singolarità dello scrittore siciliano. Sciascia non è stato soltanto un sagace narratore e un impareggiabile saggista. E' stato anche, e forse soprattutto, una coscienza civile di primissimo ordine, un moralista nel senso classico della parola. E non è un caso che talvolta il suo nome sia stato accostato a quello di Manzoni, non per le affinità di poetica, che non ce ne sono, ma per la medesima passione nei confronti della giustizia umana, anzi della ingiustizia.
Sciascia non era e non voleva essere un semplice narratore. Era e voleva essere un intellettuale in servizio permanente, che dall'osservatorio amaro e al tempo stesso privilegiato della sua Sicilia, indagava i mali e il dolore del mondo, a cominciare dalla mafia, la quale per lui non era soltanto insulare ma nazionale, o per meglio dire planetaria. C'era in Sciascia un pessimismo che gli derivava dall'osservazione diretta della iniquità della natura umana, e della incapacità degli uomini a costruire una società retta dalle leggi della giustizia. L'inganno, il potere, la corruzione, il delitto: questi erano i temi di Sciascia, incarnati in romanzi memorabili come A ciascuno il suo, Il Consiglio d'Egitto, Todo modo, Il giorno della civetta. Ma non meno memorabili restano i suoi saggi, come quello dedicato alla tragedia di Aldo Moro.
Abbiamo amato Sciascia e continueremo ad amarlo per tutta la intelligenza e la passione civile che ha profuso nei suoi libri. Non c'è un solo scritto di lui che sia effimero o banale. Aveva una mente limpida e lucidissima e profondissima. In una occasione abbiamo definito Sciascia il “commissario capo della letteratura italiana”, una definizione in apparenza scherzosa in considerazione dei suoi romanzi polizieschi, ma in realtà piena di grande rispetto per la sua geniale attitudine a inseguire i gomitoli dell'oscuro vivere civile e a trovarne spesso il bandolo. Non vorremmo anche in questa dolorosa occasione fare un panegirico di Sciascia. E d'altra parte non ci è possibile interpretare l'opera nella sua complessità.
Per ricordarlo in questo momento vogliamo dare conto di uno dei suoi più intensi e recenti romanzi: Il cavaliere e la morte non è esente da snodi e passaggi dimostrativi, però l'intreccio vince sulla volontà di denunciare una precisa situazione politica e sociale. L'invenzione maggiore, e forse quella decisiva, è racchiusa nella figura del protagonista, un commissario di polizia che viene indicato con il nome della sua funzione: Vice. Ad apertura del romanzo vediamo il Vice alla prese psicologiche con una incisione famosa del Dürer, quella appunto che raffigura “il cavaliere, la morte e il diavolo” e che dà il titolo al romanzo di Sciascia (manca il diavolo, nel titolo, e la ragione si trova nel tessuto stesso del breve romanzo). Il Vice ha appeso l'incisione in una parete del suo studio. I suoi occhi la guardano spesso, la interrogano. Anche perché dietro, sul cartone, una mano aveva scritto: “Christ? Savonarole?” forse il mercante o il collezionista, pensa il Vice, avevano cercato di interpretare il simbolismo del Dürer per il quale il Cavaliere poteva essere sia Cristo che Savonarola. Un simbolismo impegnativo, che investe direttamente la natura e il compito del Vice. Questo commissario celibe, sulla cinquantina, è minato da un male incurabile, ma non demorde, non chiede né licenze e tanto meno il pensionamento. Lui si sente, oscuramente, il Cavaliere, che deve annientare la morte, la sua privatissima morte, ma anche il diavolo che è ormai diffuso nell'intera società sotto forma di crimine. L'azione si svolge in una cittadina del Nord, mai nominata. E questo scenario è una novità di non poco conto, dato che Sciascia ha sempre preferito giocare i suoi romanzi polizieschi in casa, cioè in Sicilia. La scelta di una cittadina nordica corrisponde ad una profonda convinzione dello scrittore, come abbiamo già detto, per il quale la mafia non è più un fenomeno insulare, ma ormai mondiale. In questa cittadina si consuma un misterioso delitto. Viene ucciso un avvocato apparentemente senza macchia nella sua vita privata e pubblica. Si sospetta che l'omicida sia un potente industriale spinto al gesto da un futile motivo di gelosia. Il Vice comincia a muoversi con estrema cautela, anche perché il suo Capo non vuole che si scoprano altarini poco edificanti. Ma ecco il colpo di scena: il delitto viene rivendicato da una nuova associazione terroristica, “Figli dell'Ottantanove”, Gruppo d'azione Saint-Just”. A che cosa si riferisce veramente quel numero? Al 1789 della Rivoluzione francese , o al 1989, anno in cui si svolge l'azione? E qui il lettore capisce di non essere più in un giallo tradizionale, ma in un racconto che intende fotografare più ambiziosamente lo stato politico della nazione, la sua malattia mortale. Il pessimismo di Sciascia  sembrerebbe tale e inappellabile , se non venisse smentito dalla lucida volontà del Vice di fare chiaro in sé, e soprattutto fuori di sé.
E qui ritorniamo al tema del pessimismo di questo scrittore. Non era del tutto pessimismo, basterà pensare al fatto che la sua prosa ha una leggerezza e una lievità che incantano. Ebbene, proprio nella prosa risalta l'ottimismo biologico di Sciascia, la sua strenua volontà di non rinunciare mai alla lotta per il trionfo di una vera giustizia umana. Ma l'ottimismo sciasciano risalta anche per un altro aspetto. Nella sua prosa si avverte un grande amore dei classici, di Pirandello in primo luogo, e poi di Manzoni. Non è questo il luogo per spiegare la bellezza della prosa di Sciascia, la luminosità del suo stile. Forse per onorare la sua grandezza, basterà aprire il suo ultimo libro, Una storia semplice, pubblicato proprio in questi giorni e scritto con la morte ormai calata stabilmente sul suo capo. Addio, grande Sciascia.  

(da Avvenire, 21 novembre 1989)