Giuseppe Pontiggia - Investigazioni di un illuminista

Scrivere di Sciascia saggista, nel momento doloroso della sua scomparsa, mi accorgo che è impossibile. Perché Sciascia saggista non esiste. Sciascia era un narratore visionario anche quando scriveva saggi. Ma già l'aggettivo è superfluo, perché narratore lo contiene. Narrare significa raccontare una storia sola e insieme un numero infinito di altre storie; significa avvicinare un oggetto con allucinatoria precisione e insieme allontanarlo per vedere quello che lo circonda e che non è solo il luogo e la regione, ma il continente e la terra, in una prospettiva dilatata e molteplice. Questo occhio visionario ricorda quello che Picasso inserisce, terribile ed enigmatico, in molte opere; l'occhio caleidoscopico che gli consente, dipingendo un volto di profilo, di rappresentare l'altro occhio che si sottrae alla sua vista, ma non alla sua immaginazione.
Sciascia possedeva questo occhio, capace di attraversare l'opacità degli strati, già all'epoca del suo primo libro importante, Le parrocchie di Regalpetra, del 1956, che lui stesso, undici anni dopo, non sapeva se definire breve saggio o racconto: cronaca di un paese che “si capisce, non esiste”, così che, aggiungeva Sciascia, ogni riferimento a fatti e a persone è puramente casuale. Non era solamente una difesa ironica da obiezioni fuorvianti, ma già, a mio avviso, la consapevolezza che Regalpetra non è Racalmuto, come del resto avevano già percepito i lettori più intelligenti, che avevano liberato l'opera dalle ipoteche neorealiste. Così la sua Sicilia non è solo la Sicilia della cronaca e della Storia, è come la Spagna di Unamuno e di Ortega y Gasset: è il paese dove lo scrittore abita da sempre e che, essendo il suo mondo, è diventato il mondo. Non a caso si intitola La Sicilia come metafora la lunga intervista a Marcelle Padovani, pubblicata da Mondadori nel 1979.
Non intendo però circoscrivere le radici storiche e realistiche della sua opera e il contributo che essa ha offerto alla comprensione della torbida e cupa realtà politica contemporanea. Vorrei solo sottolinearne la prospettiva visionaria, che si fonde con le altre imprimendovi il suo definitivo suggello. Certo Sciascia stesso, nell'intervista a Claude Ambroise premessa alla edizione della sue opere nei Classici Bompiani, poventa, a proposito di Pirandello, cui ha dedicato numerosi saggi, una interpretazione troppo “ideologica” della Sicilia. Ma mostra come una lettura in chiave ideologica sia stata una “astuzia della Provvidenza”, che ha consentito di “mediare” il fuoco occulto della narrazione. E su questo fuoco è concentrato il suo interesse. La differenza da Pirandello è che non accetta l'ineluttabilità della condizione umana, ma ne ricerca le premesse, e una possibilità di riscatto, nella Storia.
Questa coscienza delle responsabilità umane rende drammatiche le sue investigazioni sull'Inquisizione o la scomparsa di Majorana, sulla fine misteriosa di Raymond Roussel o sull'Affaire Moro; e prolunga in un ascolto insieme intimo e storico gli echi dei moralisti classici e dei grandi illuministi.
Converge con Manzoni nell'angoscia dello scacco, non nella speranza della redenzione. Sciascia la cerca nella Storia, sempre meno fiducioso quanto più sincero. Così si possono interpretare anche se è legittimo dissentirne, certe sue estreme analisi della corruzione politica e giudiziaria, nelle quali ha probabilmente prevalso il senso di una verità molteplice sulla preoccupazione per le conseguenze politiche del suo gesto. Diceva nella stessa intervista a Claude Ambroise, spiegando il suo distacco dall' engagement: “C'era in me l'avversione al gregge, lo spirito di contraddizione, la paura del ridicolo, l'ironia e l'autoironia. Ma anche a Montaigne e a Pirandello debbo, in questo senso, moltissimo”.
E' in questa prospettiva che lo leggeranno le generazioni future.
E in tale prospettiva potranno leggerne la grandezza.

(dal Corriere della Sera, 21 novembre 1989)