Luigi Baldacci -Tra Pirandello e Voltaire

In un quadro, qual è quello attuale delle lettere italiane, scompare, con Leonardo Sciascia, non solo un grande scrittore, ma prima di tutto un uomo che, come pochi altri nel nostro secolo, ha creduto che lo scrittore debba avere una sua funzione, un rapporto intrinseco con la società, debba insomma esercitare il suo ruolo d'intellettuale, essendo quel ruolo a giustificarlo, ma – qui sta il punto di serietà di Sciascia – rifiutando al tempo stesso ogni sorta di organicità in favore di questo o di quel gruppo. In altre parole, Sciascia ha creduto che la funzione dello scrittore fosse quella del solista che, mostrandoci tutte le facce della verità, a rischio di scoprire che la verità non ha faccia, ci stimoli alla critica, all'originalità, magari all'individualità nei confronti delle idee trionfanti.
Un solista, insomma, alla maniera di Pirandello: che sospinge il discorso al margine del nulla, perché, essendo il mondo quello che è ed essendo la nostra società totalmente disfunzionante, non c'è posto per nessuna conclusione affermativa. Per questo Sciascia, siciliano, è sempre stato fedele all'autore dei Sei personaggi, da Pirandello e il pirandellismo, a Pirandello e la Sicilia, alla Corda pazza, fino al recentissimo Alfabeto pirandelliano. Essere fedele a Pirandello ha significato, per Sciascia, guardare dalla stessa specola quel naufragio della ragione che da secoli si continua a celebrare in Sicilia, quell'emergenza del mostruoso e dell'incomprensibile che pure è diventato prassi e biologia, servirsi infine di un medesimo cannocchiale per spingere l'occhio al di là dello stretto e persuadersi che la Sicilia altro non è che la manifestazione sintomatica acuta di una malattia che si annida più lontano, più in alto o più in profondità. Questa malattia non è razionalizzabile, la si può solo gridare ad alta voce mettendosi in testa il berretto a sonagli e dando sfogo alla corda pazza, con il Ciampa pirandelliano.
L'intellettuale Sciascia viene ad essere pertanto non una guida all'intervento e alla prassi, ma anzi colui che per definizione non trova credito perché la sua verità non serve a nessuno. Sono le parabole amare che, in modo diretto o allegorico, affrontano la realtà del potere mafioso; e Il contesto può essere considerato una dimostrazione razionalissima della sconfitta della ragione sotto la pressione del potere. La ragione diventa se mai ragion di Stato, che è il suo degrado ultimo, e questo spiega come Sciascia, che pure accusava Moro di aver mancato, nella sua vita politica e, negli ultimi suoi giorni di vita, di senso dello Stato, abbia preso sempre tutte le distanze possibili (e anche qui vale l'affinità con l'anarchico Pirandello) da questo Stato pieno di “delinquenti incensurati, rispettati, intoccabili”: come diceva in A ciascuno il suo.
Però non bisogna esagerare nel dipingere Sciascia come un illuminista sconfitto, ché di quella sconfitta prende atto e fa pubblica denuncia. C'era in lui un'idea eroica della ragione che, sebbene non ne esalti – anzi la escluda – la funzione pratica, è tuttavia sufficiente a dirci quale debba essere il nostro posto di combattimento. Nel Consiglio d'Egitto, accanto alla posizione dell'abate Vella e degli aristocratici palermitani, che s'identifica nel cialtronismo della vecchia cultura e nella difesa del privilegio, si delinea l'assunzione di una nuova responsabilità da parte dell'avvocato Di Blasi. L'impostore Vella finisce in carcere, Di Blasi sul patibolo in quanto organizzatore di una congiura giacobina, ma Sciascia riconosce in lui gli stessi attributi che in Morte dell'inquisitore riconoscerà a Diego La Matina, e cioè “la dignità e l'onore dell'uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà”.
In Sciascia Pirandello coesisteva con Voltaire, ed era indubbiamente una coabitazione difficile. Ma il pessimismo di Sciascia era di carattere generoso. Il fatto che egli abbia avuto dei punti di tangenza, anche pratici, col Partito comunista, non dovrà essere sottovalutato. Il suo marxismo, però, se mai fu tale, era di carattere cristiano: una testimonianza. E chi testimonia indossa la bianca veste del martire: sia che la sua visione antimondana, come nel Giorno della civetta, ha qualcosa di occultamente, simbolicamente cristiano: la mafia è il mondo e il mondo ha come regola suprema quella del Tutto per bene pirandelliano. Donde la responsabilità solitaria, tragica, del giudice, come in Porte aperte: dove un uomo di coscienza si rifiutava di applicare la pena capitale ripristinata dal fascismo resistendo alla mistificazione dei dati, a oscure minacce e alle pressioni dello stesso Procuratore; ed è un assillo, questo della responsabilità, che si ripresenta ancora ne Il Cavaliere e la morte.
E' facile, diceva Sciascia in questo romanzo, fare ammettere a un ragazzo preso dalla polizia, di avere fatto parte di un'associazione rivoluzionaria: “Se ne dichiarerà pentito, pentitissimo e, col nostro aiuto, farà uno, due tre nomi di sodali, di complici”; mentre c'è già chi pensa all'ultima fase del ciclo, lasciando intravedere per questi giovani disorientati “una certa comprensione e indulgenza [...] ad anticipazione del perdono”. Questo per dire quanto fosse inesauribile in Sciascia il proposito di tallonare la realtà dei nostri giorni, al tempo stesso guardando più oltre, alla sublimità o all'abiezione dell'uomo: si pensi al suo stupendo saggio sulla Storia della Colonna infame, nel quale difendeva Manzoni dalle accuse storicistiche (di uno storicismo giustificazionista) che gli erano pervenute dall'idealismo crociano e da Fausto Nicolini in particolare.
E qui si torna a quell'intrepido illuminismo che aveva molto in comune con quello del Manzoni, e non significava già un'errata comprensione della storia, bensì il rifiuto di idolatria come infallibile manifestazione dello Spirito. Di qui infine una scoperta e valorizzazione del cristianesimo di Pirandello, “consistendo il candore di Pirandello nel suo essere naturalmente cristiano e nello scoprire intorno a sé una realtà umana refrattaria al cristianesimo nella sua essenza [...] che lo stravolge e maneggia”; fino a concludere: “Se si fosse meno cattolici e più cristiani, non si stenterebbe tanto a capire che quella di Pirandello è opera profondamente cristiana”.
Inutile rilevare che questo tipo di discorso si stava portando nella dimensione del simbolo, dove tutti i concetti finiscono per essere intercambiabili. Ma, appunto, anche la dimensione del simbolo e dell'allegoria fu tipica dell'opera di Sciascia, alla quale mancò a volte, bisogna riconoscerlo, quella concretezza della scrittura che è il sigillo primo dell'invenzione narrativa. In Sciascia prevalsero le strutture (quelle del giallo, quelle del saggio storico) sul segno linguisticamente insostituibile. Ma la cosa non gl' interessava: non voleva essere né uno sperimentalista né un lirico. A volte c'è, nella sua prosa, qualche nota di stanchezza (“Si mente sempre, non facciamo che mentire, soprattutto con noi stessi”); ma la sua coerenza, in quarant'anni di lavoro, fino a Una storia semplice, non ha mai conosciuto una flessione. E dire coerenza non significa, in questo caso, il solito tributo necrologico d'occasione.

(da La Nazione, 21 novembre 1989)