Quel Candido che, orfano di padre e abbandonato dalla madre, viene affidato al nonno generale che ne diventa il tutore. Candido, per una serie di circostanze, si trova con l’essere l’erede di una grande proprietà terriera; e da questo fatto si innescano le azioni di Candido che sconvolgono tutto e tutti.
E la terra la fa da protagonista, a cominciare da don Antonio, prete spretato amico e sodale di Candido, che per il proprio fabbisogno si cimenta per la prima volta nella coltivazione dell’orto di famiglia, ma con scarsi risultati. E proprio quell’orto ricorda a Candido di essere proprietario di terre; così comincia a fare un censimento e rilevarne le colture, gli allevamenti, ecc. Scopre che le terre sono tante, ma che a lavorarci sono rimasti in pochi, solo i vecchi poiché i figli, i giovani avevano preferito emigrare. Candido chiede al nonno generale che vuole occuparsi delle terre, ma in realtà lo fa solo per andarci a lavorare scegliendosi un pezzo di terra da coltivare personalmente. Ma quella presenza quotidiana, tra i contadini crea soltanto astio e diffidenza, la vivono come un modo per controllarli, persino come una irrisione al loro lavoro. E la diffidenza era cresciuta quando Candido cominciò a fare discorsi quali “La terra ai contadini”, “la terra a chi la lavora”; stufi e delusi com’erano dalle passate esperienze, poiché per quel miraggio erano andati dietro al partito comunista.
Ma questo suo disagio e il volersi disfare della terra suscita stupore e diffidenza; chi ha a che fare con lui ormai lo considera un pazzo; ma qualcuno sospetta che in quella pazzia ci fosse del metodo. Persino i contadini, che erano i beneficiati dalle proposte di Candido, avevano fatto capire che non erano interessati, “La terra è stanca e noi siamo più stanchi di lei”, dicevano; e anche i figli sarebbero tornati soltanto per venderla quella terra e poi ripartire. E lo raggelano anche le risposte e le parole del segretario del partito comunista, che considera una provocazione la proposta di Candido di cedere le sue terre ad una cooperativa di contadini e tecnici guidati dal partito.
Possiamo rilevare che questo breve dialogo tra Candido e il segretario vale più di un trattato sulla storia della Sicilia degli ultimi sessant’anni e sul fallimento della riforma agraria e di tanta sociologia e politica che si è fatta sull’argomento.
Candido, dunque, sgomenta e spaventa tutti; i suoi parenti vogliono farlo interdire. Così decide di liberarsi della proprietà delle terre. E a questo punto il libro prosegue con un pezzo su quella terra, sul mondo contadino che è sublime letteratura, apologo della vita.
Quella terra a cui Candido: “ … Ci si era appassionato, ci aveva lavorato: ma senza alcun senso della proprietà, del possesso; come se il coltivare al meglio la terra, il renderla più produttiva, più ordinata, più netta, appartenesse alla giustezza del vivere e niente avesse a che fare col reddito, col denaro. Qualcosa che somigliava all’amore. All’amore per Paola. E ora che Paola se ne era andata, quel suo lavoro di ogni giorno gli appariva come degradato: fatica, soltanto fatica nel giro sempre uguale delle stagioni; così come sempre era stato per i contadini, mai contenti, sempre a maledire pioggia o sole, grandine e brinate, la fillossera che si attaccava alle vigne e il mal nero che si attaccava al grano …”.
E concludiamo questa ricca panoramica nel romanzo, con alcune chicche enogastronomiche:
“ … Il capitano se ne commosse: gli mandò a casa latte in polvere, latte condensato, zucchero, caffè, fiocchi di avena, biscotti al malto e carne in scatola. Un bendidio. …”
“ … Sentì di avere fame. La fame gli si accese in fantasia: pane appena sfornato, spaghetti odorosi di aglio e basilico, salsicce gocciolanti di grasso sulla brace. Trovò del pane raffermo e del burro, cominciò a biascicarne. …”.
E nel finale, in un caffe di Parigi (ordinarono): “ … Don Antonio un Armagnac … perché a Parigi voleva bere e mangiare secondo letteratura … Armagnac, dunque … Per un siciliano quasi astemio, abituato a bere un mezzo bicchiere di vino rosso sui pasti del mezzogiorno e della sera: come quasi tutti i siciliani. …”.
E terminiamo questa puntata parlando di quegli spaghetti aglio e olio vagheggiati dall’affamato Candido, con la relativa ricetta.
Spaghetti con aglio e olio
Un piatto semplice, quanto famoso e diffuso in ogni parte d’Italia, che potrebbe anche sembrare da emergenza, quando non hai altro sottomano o di pronto. Gli ingredienti sono tutti nel titolo.
La vita è piena di casi che fanno derivare virtù da necessità. Infatti, dietro questa sua apparente semplicità e povertà, questo è un piatto molto apprezzato, gustoso, quasi da buongustai. In Sicilia viene anche chiamata “Pasta a la carrittera (carrettiera)”, forse perché era il pasto tipico dei carrettieri che per vari mestieri giravano per i paesi; figure, quelle dei carrettieri, che corrispondono agli attuali camionisti: sempre in giro e dunque costretti a mangiare fuori, nelle trattorie.
Dunque, i carrettieri per questione di costi, per non appesantirsi o per evitare rischi con sughi o altre cose indigeste, prediligevano questa pasta, semplice, gustosa, alla quale hanno finito per dare anche il nome.
Preparazione
Mentre cuociono gli spaghetti, a parte in un tegame si mettono due tre spicchi d’aglio e un po’ di olio di oliva (e comunque secondo la quantità di pasta; senza far cuocere, si schiacciano e si sminuzzano gli spicchi d’aglio, si fanno amalgamare con l’olio di oliva e vi si aggiungono un paio di mestoli dell’acqua bollente in cui sta cuocendo la pasta; rimescolare il tutto che in tal modo diventa il nostro condimento. A cottura ultimata, la pasta si scola e si versa nel tegame con il condimento; mescolare tutto per bene, servire nei piatti, redistribuendo il residuo miscuglio brodetto del tegame, con abbondante grattugiata di formaggio pecorino.
Salvatore Vullo